Non aveva ancora compiuto 23 anni Pieter Paul Rubens (Siegen, Germania, 1577-Anversa 1640) quando, il 9 maggio del 1600, partì per l’Italia da Anversa, ma già da due anni, dopo un solido apprendistato, faceva parte della gilda cittadina di San Luca. Pittore di gran talento, era anche forte di una vasta cultura umanistica, padrone del greco e del latino, della letteratura e della mitologia classiche. In Italia scese proprio in cerca di quelle fonti antiche e, appena giunto a Venezia, fu chiamato a corte (come pittore, e presto anche come diplomatico) dal duca Vincenzo Gonzaga, che per gli otto anni del suo soggiorno in Italia ne sarebbe stato il mecenate.
Mantova e Roma, le città dove Rubens studiò «sul campo» la cultura classica (a Mantova, soprattutto attraverso la rilettura di Giulio Romano) e dove formulò il suo nuovo, abbagliante e sincretico linguaggio artistico, gli rendono ora omaggio con il progetto «Rubens!», tre mostre che ne esplorano l’opera attraverso punti di vista diversi ma complementari.
Ad aprire i giochi è Mantova, il 7 ottobre in Palazzo Te, con «Rubens a Palazzo Te. Pittura, trasformazione e libertà», a cura di Raffaella Morselli (studiosa che ha all’attivo due libri sul maestro fiammingo) e «Rubens. La Pala della Santissima Trinità» in Palazzo Ducale, a cura del direttore Stefano L’Occaso (entrambe fino al 7 gennaio 2024). In quest’ultima il pannello centrale (conservato qui) con «La famiglia Gonzaga in adorazione della Trinità», 1605, del grandioso «trittico» (400 metri quadri di pittura) realizzato da Rubens per la chiesa della Santissima Trinità, è esposto in una ricostruzione tridimensionale della chiesa stessa, oggi inaccessibile perché sede dell’Archivio di Stato mantovano.
Dal 14 novembre sarà la volta della Galleria Borghese, a Roma, dove la direttrice Francesca Cappelletti e Lucia Simonato, nella rassegna «Il tocco di Pigmalione. Rubens e la scultura a Roma» (fino al 18 febbraio 2024), muovendosi nella favolosa collezione di Scipione Borghese (con cui Rubens, a Roma, entrò subito in contatto) pongono l’accento sulla sua geniale rielaborazione della statuaria antica e moderna vista nell’Urbe.
La mostra di Palazzo Te si propone invece, come avverte Stefano Baia Curioni, direttore di Fondazione Palazzo Te, come una metafora dell’«Europa della cultura», cementata nei secoli dalla «pratica della libertà» nel reinterpretare criticamente il passato: proprio come fa Rubens. Ne parliamo con la curatrice, Raffaella Morselli.
Professoressa Morselli, l’anno scorso la grande mostra «Superbarocco. Arte a Genova da Rubens a Magnasco» a Roma e, a Genova, «Rubens e i palazzi di Genova». Da pochi giorni, «Rubens and Women» alla Dulwich Picture Gallery di Londra. Perché tanto Rubens e perché, qui in Italia, ancora una volta Rubens?
Perché Rubens parla tutte le lingue e in lui ci si può riconoscere tutti. Di sé lui dice «Io sono di tutte le patrie. La mia patria è il mondo»: è un uomo modernissimo, che pensa in modo europeo. Con Francesca Cappelletti e Stefano Baia Curioni abbiamo pensato a un progetto che ponesse l’accento sulla sua dimensione europea: del resto, nato in Germania perché il padre vi era esiliato con l’accusa di calvinismo, Rubens cresce nelle Fiandre, poi viene in Italia e viaggia in Spagna, in Francia e Inghilterra: parla una lingua pittorica che è una koinè. E inoltre, ogni secolo ha il «proprio» Rubens e io ho pensato a chi lo scopre per la prima volta, alle nuove generazioni.
La mostra, che riunisce 52 opere da musei italiani ed europei, segue la scansione delle sale decorate da Giulio Romano in Palazzo Te, mettendo a confronto le sue invenzioni e le reinterpretazioni di Rubens. Quali sono gli accostamenti più felici, a suo parere?
Difficile dirlo, ovunque emergono affinità impressionanti: Rubens, che ben conosceva la mitologia classica (e anche l’arte di Giulio attraverso le stampe di Teodoro Ghisi), arrivando a Mantova «cade» letteralmente dentro la sua pittura, ne viene travolto: per fare solo qualche esempio, la sua «Deianira tentata dalla fama», dai Musei Reali di Torino, ha l’identica postura di una figura del «Banchetto degli Dei» di Giulio, nella Camera di Amore e Psiche. E anche le «Tre Grazie» (qui in un dipinto di collezione privata, molto simile a quello del Prado) sembrano calare direttamente da lì.
Nella Camera delle Aquile, poi, la «Caduta di Fetonte» è la fonte evidente del capolavoro di Rubens «San Michele che espelle Lucifero» del Museo Thyssen di Madrid. Questo però accade non solo in Rubens ma anche in altri artisti che, come Jacob Jordaens, non vennero mai in Italia ma conobbero Giulio Romano attraverso le trasposizioni di Rubens (il quale portò ad Anversa fogli di Giulio, talora da lui ritoccati): in mostra c’è il soffitto del salone dipinto da Jordaens nella sua casa di Anversa, dove ci sono citazioni evidentissime dalla Camera di Amore e Psiche, che lui «vide» attraverso Rubens. Per Rubens, infatti, Giulio Romano rappresentò un incontro fatale, che lo segnò non solo a Mantova ma poi per l’intera vita.
Nel quadro europeo di questo progetto, che cosa si può dire di Rubens diplomatico?
Come allora ci si attendeva da un intellettuale fiammingo, che aveva studiato il greco e il latino, a Rubens furono affidati ruoli di governance: lui fu un finissimo diplomatico, altri fondarono banchi di pegni o diventarono governatori. È un aspetto che abbiamo affrontato soprattutto nelle conferenze presentate a Palazzo Te durante l’estate e trasferite in documenti visivi e podcast destinati a formulare la proposta di una dichiarazione sintetica sull’Europa e le politiche culturali nel prossimo futuro.