Raggiungiamo Pablo Atchugarry (Montevideo, Uruguay, 1954) mentre è impegnato, con il curatore Marco Meneguzzo, ad allestire la sua grande mostra «Vita della materia» nella Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale e nelle salette vicine, che sarà visibile dal 27 ottobre fino al 30 gennaio.
Delle oltre 40 opere scelte per questo appuntamento, alcune sono realizzate in bronzo, con la tecnica antica della cera persa, poi lavorate con colori primari, altre sono d’alabastro, altre ancora di legno e una, di legno d’olivo, è stata realizzata espressamente per questa rassegna. Spiega l’artista: «Mi sono accostato anche in passato al legno ma oggi lo utilizzo a maggior ragione (servendomi sempre di alberi già morti, ovviamente) per denunciare la deforestazione e i danni all’ambiente».
Queste opere trovano posto negli spazi contigui alla Sala delle Cariatidi, in uno dei quali è stato ricostruito lo studio dell’artista («non tutti hanno conoscenza di uno studio di scultore, ci spiega, e noi abbiamo voluto riprodurlo portando qui oggetti e strumenti di lavoro del mio atelier. C’è persino la mia sedia preferita»), mentre nell’immensa, altissima Sala delle Cariatidi sono esposte le sculture realizzate con i suoi marmi prediletti: lo statuario di Carrara, il rosa del Portogallo, il grigio bardiglio e il nero del Belgio.
«La mia scultura è molto verticale, commenta Atchugarry, ed è emozionante vederla in questo spazio grandioso. Per tutte le opere ho voluto un’illuminazione dal basso, come quella delle Cariatidi: un gioco di luci che crea una sorta di danza tra presente e passato, come se il tempo e la storia di questa sala così ricca di suggestioni (penso, tra l’altro, alla mostra di Picasso del 1953) giocassero con le opere».
Opere che (fatto per nulla frequente) sono tutte scolpite personalmente dall’artista: «Lavorarle personalmente è un punto per me fondamentale, afferma deciso. L’artista che si limita a essere progettista non può seguire i passaggi della materia, né può realizzare i cambiamenti che la materia stessa suggerisce. Sono momenti talora drammatici, che (come accadde a Michelangelo con la “Pietà Rondanini”) impongono di rivoluzionare il progetto. Nessun altro potrebbe farlo, né tanto meno un robot. La mia scultura è come un bambino che deve crescere con il papà».
L’Italia? «Era nel mio destino, conclude l’artista, ormai noto nel mondo intero, che nel prossimo gennaio inaugurerà un grande museo nella sua fondazione a Punta del Este, in Uruguay. Avevo 12 anni e a scuola si parlava dell’Italia. Io citai le cave di Carrara e il Lago di Como. Oggi uso il marmo di Carrara e vivo molta parte dell’anno a Lecco, su quel lago. Una premonizione».