Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Cecilia Cavalca
Leggi i suoi articoliMadrid. Al Museo del Prado di Madrid si celebra fino al 28 giugno Rogier van der Weyden. Lo si fa con un’importante mostra curata da Lorne Campbell che ha come epicentro un capolavoro di soggiogante presa visiva: il «Calvario» del Monastero di San Lorenzo dell’Escorial. Esposto a conclusione di un restauro iniziato nel 2011 (sotto la direzione tecnica congiunta dello stesso Museo del Prado e del Patrimonio Nacional), l’imponente dipinto su tavola è restituito al pubblico in una veste cromatica del tutto nuova che recupera l’alta qualità della stesura pittorica originale: fresca e libera nel tratto, d’intonazione cromatica brillante e meravigliosamente trasparente nei passaggi di tono. Una scommessa vinta, occorrerà aggiungere, contro chi su quella superficie martoriata da danni e interventi posteriori non riusciva più a scorgere nemmeno un centimetro quadrato dei pigmenti impiegati da Rogier. L’accurato lavoro svolto per raggiungere tale risultato è ben commentato, con utili approfondimenti sulle vicende materiali dell’opera, da Carmen García-Frías Checa nelle pagine del catalogo.
Il «Calvario dell’Escorial (circa 1457-64) è una delle tre sole opere che possono essere attribuite con certezza a Rogier van der Weyden in forza di affidabili evidenze documentarie; le altre sono la «Deposizione» (Madrid, Museo del Prado, ante 1443) e il «Trittico di Miraflores» (ante 1445; Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie), radunate per la prima volta.
Rogier van der Weyden dipinge il «Calvario» al termine della propria carriera, presentendo forse la fine della parabola umana che lo aveva fatto assurgere nella stima dei contemporanei al posto del maggiore e più nobile tra gli artisti. Stando alla documentazione più antica, il grande dipinto (323x192 cm) fu donato dallo stesso «magistro Rogero» alla certosa di Scheut, fondata nel 1456 nei pressi di Bruxelles. Poiché la chiesa della certosa si costruì solamente tra il 1469 e il 1531, vale a dire quanto l’artista era già morto, è molto probabile che il dipinto fosse collocato inizialmente nella grande cappella eretta nel 1450 per ricoverare un’immagine miracolosa della Vergine. Il dato sfugge alle maglie dell’indagine storiografica, ma la mostra è occasione imperdibile per riscoprire attraverso gli stimoli visivi messi in campo i molteplici livelli di significato sottesi alla raffigurazione rogeriana.
La forte seduzione esercitata dal colore bianco degli abiti, ad esempio. Quel colore, uno dei recuperi più accattivanti del lavoro di restauro, era ritenuto indizio di «purezza, verità, onestà, verginità, innocenza, speranza, giustizia», ma anche di doglianza poiché «le regine vedove di Francia lo vestivano durante il lutto». Ci è purtroppo impedito di sapere che cosa i certosini abbigliati del medesimo bianco pensassero davanti a quelle figure, tuttavia è certo, ci ricorda il curatore, che due viaggiatori vedendo il «Calvario» all’inizio del Seicento nella sagrestia dell’Escorial, ritenessero pressoché impossibile non scambiarle, alla giusta distanza, per altorilievi. Che Van der Weyden nel dipingerle intendesse far riferimento alla scultura parrebbe essere sicuro. Il richiamo alla scultura è infatti, ad evidenza, un mezzo congeniale per evocare un realismo commovente senza distruggere l’impressione di distanza.
Ogni volta che Rogier si allontana dalla realtà lo fa per un motivo, scrive ancora Campbell. Ed è per questo che nel «Calvario», come nei maggiori autografi rogeriani, ciò che alle figure è sottratto in termini di verisimiglianza è sempre equilibrato, in modo quasi stregonesco, con ciò che l’occhio guadagna in termini di presa psicologica (Gombrich).
L’esposizione seleziona alcune fra le più alte ideazioni figurative germinate dall’enorme lavoro svolto in questa direzione dal caposcuola fiammingo.
Nella prima sala, la spettacolare «Deposizione», con figure poco al di sotto del naturale, è affiancata dal «Ritratto di un uomo robusto» del Museo Thyssen-Bornemisza, attribuito a Robert Campin (circa 1435), probabile maestro di Rogier. La fisionomia dell’uomo ritratto è molto simile a quella della figura riccamente abbigliata che nella «Deposizione» regge le gambe di Cristo: Giuseppe d’Arimatea. Riutilizzando lo stesso modello per una storia sacra, Rogier lo spoglia dei tratti morfologici più vividi. Non si riesce a immaginare accostamento migliore per guidarci alla lettura dei continui, piccoli aggiustamenti di linea e di forma che nella «Deposizione» producono lo stesso senso di incombenza, quasi repulsiva, che si avverte, alla prima, di fronte al «Calvario». Lo spettatore non riesce a sottrarsi perché l’occhio è irrimediabilmente incantato dalla maestria con cui l’artista governa gli strumenti del mestiere, tenendo in equilibrio gli opposti: «semplicità e complessità, simmetrica e asimmetrica, passato e presente, umano e divino».
L’unione del ritratto Thyssen alla «Deposizione» del Prado, prelude a un ancora più significativo accoppiamento: quello fra la stupenda statua in alabastro policromato e dorato raffigurante il vescovo Lope de Barrientos (Medina del Campo, Fundación Museo de las Ferias, circa 1447-54) e il trittico donato dal re Giovanni II di Castiglia alla certosa di Miraflores, vicino a Burgos, per l’esecuzione del quale si prospetta l’intervento dell’ecclesiastico; un uomo colto e intimo della corte per essere nominato, quarantasettenne, tutore di Enrico, figlio di Giovanni II e di Maria d’Aragona. La statua di Barrientos, opera stupefacente e non ancora nota come merita, è attribuita con ottime ragioni al brussellese Egas Cueman (in mostra tre bellissimi disegni autografi provenienti dal Reale Monastero di Santa Maria di Guadalupe). Egas era uno scultore di eccezionale talento che con il fratello architetto Anequin si stabilì nella penisola iberica quando Van der Weyden era ancora in vita. È il momento più alto della messa a fuoco del tema che in sottotraccia fa da filo conduttore alla mostra, titolata: «Rogier van der Weyden y los reinos de la península Ibérica».
Si continua a seguirne il racconto, stretti tra pittura e scultura, con la «Crocifissione» in legno di castagno policromo, parte del polittico dalla chiesa di Santa María de la Asunción a Laredo (circa 1430-40; cat. 11), eseguita da maestranze di Bruxelles. L’invito è a sostare sul valore delle pratiche della lavorazione, a soppesare le tracce lasciate dall’atelier nel passaggio tra l’abbozzo progettuale (forse di mano di Van der Weyden) e l’opera finita. L’obiettivo è rilanciato nella stessa stanza dal «Trittico dei sette Sacramenti» (Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten, circa 1450; cat. 4). In ottimo stato di conservazione, il celebre autografo di Rogier tiene alti gli intenti del percorso espositivo: fa da contraltare al gruppo scultoreo di Laredo, riflesso a sua volta nella «Crocifissione» assegnata al Maestro della Leggenda di santa Caterina (Madrid, Museo del Prado, circa 1475-85; cat. 13) e misura gli scarti fra il segno degli assistenti di bottega e quello dei tanti discepoli. Ma il Crocifisso deisette Sacramenti, incastonato ad arte in una fuga prospettica che lo suggerisce di immani proporzioni, è altresì affascinante prototipo del grande Crocifisso dipinto nella tavola dell’Escorial. L’opera che alla fine dell’allestimento espositivo ne corona il percorso ha davanti a sé, quasi a sorpresa, l’imponente arazzo con «Episodi della storia di Iefte», parte della raccolta del Museo della Cattedrale Metropolitana di Saragozza (circa 1450-60). È lì per darci la possibilità di verificare (ancora una volta con il confronto più giusto) se anche questo superbo manufatto fiammingo, conservato col suo pezzo compagno nella penisola iberica, dove quasi per certo già si trova in antico, fu, come è stato di recente suggerito, tessuto avendo sottomano cartoni disegnati da Van der Weyden. Nulla a che fare, nondimeno, con l’ostentazione di un sofisticato esercizio di filologia visiva; piuttosto meritevole evocazione, a nostro congedo, delle opere di grande formato più celebrate di Rogier: la «Giustizia di Traiano e di Herkimbaldt». Quattro enormi tavole, dipinte a metà del Quattrocento per la sala del Consiglio comunale di Bruxelles. Distrutte nel 1695, le conosciamo per derivazioni libere realizzate in materiali diversi, ma in particolare per l’arazzo dell’Historisches Museum di Berna che fu tessuto per Giorgio di Saluzzo, vescovo di Losanna (morto nel 1461) quando Van der Weyden era ancora in vita.
Correda questa splendida esposizione un agile catalogo efficacemente illustrato, con testi di confortante limpidezza, destinati a rimanere.
«Rogier van der Weyden y los reinos de la península Ibérica»,
a cura di Lorne Campbell
Madrid, Museo Nacional del Prado
Fino al 28 giugno 2015
Catalogo in edizione spagnola e inglese
Articoli correlati:
Il calvario del Calvario


Il «Calvario» di Rogier van der Weyden dopo il restauro. Real Monastero di San Lorenzo dell’Escorial

Rogier Van der Weyden, La Deposizione, 1435 ca, Madrid, Museo del Prado
Altri articoli dell'autore
Il sogno del collezionista imprenditore diventa realtà. 80 opere della sua importante raccolta d’arte emiliana raccontata da Cecilia Cavalca