È stato tra i più brillanti, prolifici e innovativi incisori del XVII secolo. Giuseppe Maria Mitelli, nato a Bologna nel 1634, scomparso nel 1718, ha realizzato una straordinaria quantità di acqueforti, tra le più variegate per generi, temi e soggetti: allegorie sacre e profane, scene di vita quotidiana, ma anche di cronaca, satira politica, proverbi e giochi di società. Figlio d’arte, suo padre Agostino Mitelli fu pittore alla Corte di Filippo IV di Spagna a Madrid, fu anche un talentuoso ed eclettico allievo che ebbe tra i suoi maestri Simone Cantarini, Francesco Albani e il Guercino. Abile pittore riprodusse, in particolare durante il periodo formativo, opere dei Carracci, del Guercino e di vari noti pittori bolognesi, tutto documentato. Anche se, nonostante le tantissime incisioni giunte sino a noi, di lui ci restano pochissime opere pittoriche. Rientrato a Bologna dopo aver seguito il padre a Madrid e avere soggiornato a Venezia, aveva allestito il suo studio nel palazzo dei Banchi, con una luminosissima vista su piazza Maggiore, ma soprattutto su quel variegato e vivace popolo bolognese che la animava e la attraversava e che sarebbe diventato il soggetto di tante sue fortunatissime raffigurazioni. Anche per quanto riguarda l’incisione l’esordio fu la traduzione di alcuni grandi classici della pittura bolognese e veneziana, da Guido Reni a Lodovico Carracci, a Tiziano, Veronese e Tintoretto. Al lavoro di traduzione iniziò presto ad alternare quello di invenzione, elaborando un segno essenziale, fresco, immediato, asciutto e tagliente, perfetto per rappresentare nel modo più efficace e comunicativo soggetti popolari, scene umoristiche e satiriche e per la produzione di giochi da tavola.
È l’esordio di un filone di grande successo e anticipazione dei tempi, il racconto quasi fumettistico di un mondo popolare e profano fatto di debolezze, passioni e paure. Un incandescente universo iconografico che prende forma nella mostra « Il Gran Gioco del Mondo. Giochi e stravaganze di Giuseppe Maria Mitelli (1634-1718) dalla Raccolta delle Stampe del Castello Sforzesco di Milano», a cura di Luca Baroni, Sara Benvenuti, Francesca Volpini visibile fino al 31 dicembre al MARV Museo d’Arte Rubini Vesin di Gradara, nelborgo medievale marchigiano insignito bandiera arancione dal Touring Club Italiano, noto per aver fatto da sfondo al tormentato e dantesco amore tra Paolo e Francesca e per essere, da oltre vent’anni, la città del gioco grazie a un rinomato e frequentatissimo festival internazionale. Il gioco è un elemento ricorrente nell’arte incisoria di Giuseppe Maria Mitelli, una finestra sull’animo umano, perché, in fondo, come diceva Platone, «scopri di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione».
Nella mostra sono esposte alcune tra le sue serie più note: «Le Arti per via», «I mesi», «Proverbi figurati», «I Vizi Capitali» e i «33 giochi». Figure dai tratti spesso caricaturali accompagnate da frasi umoristiche non scevre da riferimenti all’attualità e alla politica scandiscono un percorso organizzato in nove nuclei tematici. Tra le serie esposte le 48 acqueforti dei «Proverbi figurati», dedicate a Francesco Maria de’ Medici, dove ciascuna illustra con uno stile asciutto ed essenziale una massima, perlopiù di derivazione popolare. Per esempio la donna in piedi col bastone e l’uomo inginocchiato davanti all’uscio di casa con la scritta «Trista è quella casa dove la gallina canta e il gallo tace», segno dei tempi, di un’epoca dove l’emancipazione femminile era ritenuta dannosa e disdicevole. Oppure «Le Arti per via», 40 acqueforti derivate dalle invenzioni di Annibale Carracci che danno forma a una ricchissima galleria di mestieri popolari, diventate quasi un marchio di fabbrica dell’incisore bolognese. E non manca naturalmente la tradizione ludica più antica, per esempio il Tarocchino bolognese, realizzato nel 1660 per una potente famiglia bolognese: 62 carte stampate e ristampate sino ai giorni nostri. O il Tavoliere per dadi, un tabellone da gioco con varie caselle illustrate e scritte dove a ogni numero corrisponde un’azione da compiere, per esempio se esce il numero 8 bisogna dire che si è brutti (P.S. d’obbligo giocare con tre dadi e a soldi). E poi ancora, le visioni critiche e severe sull’amore, soprattutto se le protagoniste sono donne, i giochi di parole, i rebus e gli anagrammi, le incisioni utilizzate come critica e cronaca, talvolta con fini propagandistici e stereotipi, come nel caso delle stampe raffiguranti i turchi ottomani. Da segnalare anche i vizi capitali, con figure bestiali e demoniache a illustrare le umane debolezze. Le vanitas, attraverso cui Mitelli esorcizza i temi della vecchiaia, della caducità e della morte e, infine, le raffigurazioni dedicate al cibo, alla fame, alla cuccagna e ai mesi, queste ultime furono addirittura usate nel programma della RAI «Almanacco del giorno dopo». Completano la mostra alcune postazioni ludiche multimediali, animazioni teatrali, intrattenimenti musicali e attività per le famiglie, documenti d’archivio che ricostruiscono i giochi diffusi nel borgo marchigiano tra Sei e Settecento.