Rudi Fuchs
Leggi i suoi articoliUna mattina d’aprile del 1984 un tale Giovanni Ferrero mi chiamò al telefono da Torino. Si presentò come assessore alla cultura della Regione Piemonte. Chiese se poteva venire a trovarmi la settimana successiva a Eindhoven dove dirigevo il Van Abbemuseum. Ci accordammo per incontrarci in un hotel. Il suo volo era in ritardo, e arrivò quasi a mezzanotte. Ci sedemmo, prendemmo un drink e parlammo fino alle quattro del mattino. Il Castello di Rivoli era una dimora barocca che, dopo la guerra, fu affidata alla Regione Piemonte. Era abbandonata da molti anni e versava in gravi condizioni. La Regione aveva deciso di dedicare il castello all’arte contemporanea. Ferrero, che era l’assessore alla Cultura del Consiglio regionale, aveva sentito parlare di me e mi chiese se potevo aiutarli a realizzare il progetto. Naturalmente, ne fui subito affascinato, così dissi che dovevo parlare con i miei datori di lavoro a Eindhoven. Concludemmo che sarei andato a Torino per visitare il castello.
Quando dieci giorni dopo vidi il luogo ne rimasi sopraffatto. Era imponente ed enorme, un’opera architettonica spettacolare. Giovanni Ferrero mi presentò Andrea Bruno, l’architetto responsabile del restauro, e Alberto Vanelli, capo servizio nell’ufficio di Ferrero. Inizialmente osservai il contesto. Il castello si trovava in cima a una collina, da cui si potevano vedere prima Rivoli, poi, verso ovest, corso Francia, che conduceva a Torino. Dall’altra parte si stagliavano le montagne, l’inizio della Val di Susa, che porta in Francia. Nei giorni di bel tempo a Nord si potevano vedere le Alpi. Il Piemonte, «ai piedi delle montagne», era incantevole e scenografico. Il cielo lontano spesso appariva sfocato. Passai a osservare gli spazi interni.
Gli ambienti erano ampi, alti e generosi. Andrea Bruno aveva già completato il grande ingresso con scale e ascensori. Soffitti, volte e tetti erano stati riparati. All’ultimo piano, un’ampia soffitta, erano stati creati spazi rettangolari con pareti bianche grezze. Non c’erano i pavimenti. Dovevano ancora iniziare i lavori di restauro delle sale decorate del primo e del secondo piano, che necessitavano di una nuova pavimentazione. Ricordo di aver visto per la prima volta quelle stanze decrepite e di aver capito all’istante che questo progetto avrebbe potuto essere, senza vie di mezzo, o ordinario o spettacolare. In molte delle stanze i colori originali erano ancora visibili. C’erano frammenti di affreschi. Camini molto decorati. Porte con cornici intagliate. E tutto intorno, in ogni stanza, grandi finestre incassate in nicchie poco profonde lasciavano entrare, per gran parte dell’anno, abbastanza luce naturale. La prima decisione che presi fu che nel «mio» museo le finestre sarebbero rimaste aperte, così da permettere ai visitatori di vedere il paesaggio circostante e le montagne del Piemonte.
Come test, Andrea Bruno restaurò una stanza seguendo il metodo tradizionale: riparando ciò che era rovinato o rotto affinché apparisse fresco e nuovo. Il soffitto, decorato con stucchi, risultava bianco e pulito. Il pavimento era in terrazzo di marmo con un elegante disegno. Suggerii allora di interrompere subito tutti i lavori di restauro: ciò che dovevamo fare era arrestare il decadimento fisico degli interni del castello, senza alterarne l’autenticità. Fu una rivelazione, un’epifania. All’improvviso, nella mia mente, vidi apparire opere d’arte contemporanea su quelle antiche pareti, in quegli spazi fragili. Nell’austera dignità delle stanze vedevo opere di Sol LeWitt, Giovanni Anselmo, Enzo Cucchi, Alan Charlton, Georg Baselitz, Mario Merz, Katharina Sieverding, Joseph Beuys, Jannis Kounellis e Giulio Paolini. Dissi anche a Ferrero, a Bruno e a Vanelli che le finestre dovevano restare aperte, per lasciare entrare la luce naturale. Il castello era magnifico e straordinario, con la sua posizione sulla collina e gli interni teatrali. Perché rovinare queste qualità uniche trasformandolo in un museo moderno come tanti altri? Ce ne sono già tanti, di nuovi musei, e ce ne saranno sempre di più. Ma c’è un solo Castello di Rivoli.
Quella sera o il giorno successivo suggerii un’altra cosa: in un edificio così nobile, sarebbe stato un peccato introdurre il solito susseguirsi di mostre temporanee. Le nuove opere avrebbero dovuto abituarsi al loro contesto. Le bellissime stanze, a loro volta, avrebbero dovuto adattarsi a opere altrettanto belle. Non dovevamo fare del castello un semplice contenitore di esposizioni: dovevamo creare un vero museo. In altre parole: la prima mostra doveva consistere in un insieme di opere, un insieme di diverse visioni e attitudini, una sorta di «simulazione» museale. Per testarla, il primo nucleo avrebbe dovuto rimanere esposto per almeno un anno. Le opere dovevano essere idealmente acquistabili, affinché il museo di Rivoli potesse iniziare una propria collezione permanente. Quel nucleo divenne «Ouverture», la prima mostra. Da »Ouverture» la Regione acquistò diverse opere, ed è così che ebbe inizio la collezione.
Ricordo le discussioni entusiastiche di quei giorni. Stavo delineando un’intera struttura museale. Parlavo principalmente in italiano. È incredibile, ma accettarono tutte le mie proposte. Giovanni Ferrero e Alberto Vanelli avevano un’inclinazione alla follia del tutto apprezzabile. A un certo punto mi informarono che, a causa della pianificazione di bilancio della Regione, il progetto doveva essere concluso entro la fine dell’anno fiscale 1984, ossia in circa sei mesi. «Va bene, risposi, a condizione che i lavori di costruzione nel castello terminino entro la fine di novembre. Mi serviranno tre settimane per installare le opere». Ferrero guardò l’architetto Bruno, che annuì. E aggiunsi: «Per quanto riguarda l’architettura interna, mi piacerebbe avere l’ultima parola». E anche su questo si dissero d’accordo.
C’è stato un ottimo dialogo con l’architetto Bruno mentre procedevano i lavori di costruzione. Fu deciso di inaugurare il museo il 18 dicembre, poco prima di Natale. Ora che scrivo mi rendo conto che non avevamo molto tempo. Ricordo però di non essermi preoccupato. Eravamo sereni e non abbiamo mai sentito fretta. Fondamentalmente il progetto era nelle mani di poche persone. Ferrero e dal suo ufficio Vanelli e uno o due assistenti. Ogni tanto incontravamo il presidente Aldo Viglione, il che era sempre un piacere per via del suo entusiasmo. Io ero in costante contatto con Bruno su tutti gli aspetti dell’edificio. Gli spazi del castello erano grandiosi, ma volevo che le stanze in cui sarebbero state installate le opere fossero il più possibile essenziali e semplici. Fortunatamente Andrea aveva capito cosa volevo. Abbiamo lavorato come un piccolo gruppo affiatato. È stato come piantare un giardino insieme. Ci intendevamo istintivamente.
Mentre seguivo attentamente gli sviluppi nelle sale del castello contattavo artisti e gallerie per le opere, selezionandole in base alle sale in cui sarebbero state esposte. Ho fatto degli schizzi in modo da poter immaginare la mise en scène delle sale e gli accostamenti. Tutti gli artisti sono stati molto disponibili. Mentre ero impegnato a pianificare, alcuni cari amici sono venuti ad aiutarmi, come il grafico Walter Nikkels e il mio collega Johannes Gachnang. Avevo lavorato con loro a Kassel nel 1982 per documenta 7. Ci vogliono persone di cui ci si può fidare d’istinto. Naturalmente incontravo anche i grandi artisti torinesi e le loro gallerie. Li ringrazio tutti. È stato anche un loro progetto, e in gran parte un progetto di Torino e del Piemonte. Cristina Mundici si è unita al piccolo team diventando la mia curatrice a Rivoli. Alla fine ho anche chiesto a Gachnang di diventare il mio codirettore. Entrambi rimasero lì finché non me ne andai nel 1990. Il museo stava iniziando a cambiare. Probabilmente era necessario che la sua organizzazione diventasse, come si dice, più professionale. Me ne andai senza alcuna tristezza. È stata una storia d’amore. Ho imparato molto. Per esempio, quello che mi diceva sempre Ferrero: «Dovresti iniziare una battaglia solo quando sai di poterla vincere». Con il nuovo museo avevamo fatto un lavoro come si deve, che valeva la pena e aveva senso. Questo è ciò che abbiamo lasciato. Un museo come si deve: orario continuato tutti i giorni tranne il giorno di Natale.
Ricordo una sera di metà dicembre. Stavamo allestendo, e tutte le stanze erano illuminate. Sono uscito lungo la via principale di Rivoli, diretto verso corso Francia, per cenare al Ristorante Nazionale, quando fui fermato da un signore anziano che voleva stringermi la mano. Mi aveva riconosciuto da un servizio andato in onda sulla televisione locale. Non lo dimenticherò mai. «Grazie mille, mi disse. Sono nato a Rivoli. Per tutta la vita ho visto il castello sulla collina. Era sempre al buio. Ma ora lo vedo vivo e le finestre sono illuminate. Finalmente c’è luce dalle finestre. Grazie grazie dottore, grazie».