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Mario e Marisa Merz

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Mario e Marisa Merz

Rudi Fuchs: «Mario Merz comprendeva l’essenziale umiltà dell’opera»

In occasione del centenario dalla nascita del maestro dell’Arte Povera, il 14 e il 15 gennaio la Fondazione torinese intitolata all’artista ospita un grande simposio. Proponiamo il testo dell’intervento dello storico dell’arte olandese

Nel corso degli anni sono state molte le occasioni in cui ho potuto osservare Mario Merz al lavoro. Quando era all’opera, in pratica assemblando qualcosa, si aveva l’impressione che fosse vicino a quello che realmente era: un grande uomo pieno di sentimenti che si fidava dell’istinto della mente, ma, soprattutto, della suprema intuizione delle sue mani. I ricordi più intensi che ho di lui non sono certamente lunghe conversazioni, ma alcuni momenti del suo lavoro, della sua attività. Essere lì e guardarlo aggirarsi intorno a un igloo o a un tavolo, sistemare e spostare oggetti con lentezza, con calma, riflettendo, forse tali momenti di osservazione mi hanno fatto intuire qualcosa sulla straordinaria sottigliezza e fragilità della sua arte.

La storia che vi racconto comincia in Germania, nella piccola città di Geislingen, vicino a Stoccarda; e devo spiegare le circostanze. Per una mostra di sculture all’aperto che coinvolgeva anche altre città della zona, avevamo chiesto a Mario di fare dei tavoli in un certo posto a Geislingen, lontano dal centro della città. A Geislingen c’era e c’è un’industria principale nonché molto importante, la Würtembergische Metall Fabrik (Wmf), che produce coltelli e utensili da cucina: una marca famosa che rappresenta la maestria tedesca. Agli inizi del ventesimo secolo l’azienda, vedendo che il vecchio comprensorio abitativo per gli operai, vicino all’impianto del centro città, era diventato obsoleto, decise di costruirne uno nuovo, lontano dal centro, in aperta campagna, dove gli operai avrebbero potuto avere giardini, alberi e aria pulita. Ma, come spesso succede, a un certo punto, negli anni Sessanta, il villaggio perse la sua attrattiva agli occhi della nuova classe operaia che poteva ora permettersi villette nell’immediata periferia, dove c'erano negozi migliori. Della vecchia proprietà si impossessarono prima gli studenti e poi famiglie turche. 

Il centro di incontro principale era la fermata dell’autobus dove ogni mezz’ora arrivava l’autobus dal centro città, distante due chilometri, vi sostava per cinque minuti per poi dirigersi nuovamente in città, girando attorno a un piccolo giardino rotondo. Nell’inverno del 1991-92 mostrammo a Mario Merz questo posto, in qualche misura perso nel nulla e molto poco artistico. Ci facemmo un giro a piedi. Nevicava e nella neve Mario assomigliava ancora di più a Wagner. Era passato poco tempo dalla trionfante caduta del muro di Berlino ma questo piccolo villaggio di casette e giardinetti sembrava triste e abbandonato anche se le strade mantenevano i loro vecchi, orgogliosi nomi, ora un po’ nostalgici: via Carlo Marx, strada Rosa Luxemburg. Il nostro progetto era di marcare il punto di incontro, la fermata dell’autobus, con un lavoro artistico scultoreo. Era qui che la gente si incontrava ogni giorno, quando andava a scuola, al lavoro, a fare la spesa, all’ospedale e quando ne tornava. Si trattava di un luogo con un’importanza sociale. E dall’altra parte della fermata c’erano anche due negozi: una panetteria e una macelleria. Tuttavia, stando lì, l’idea di arte sembrava ridicola, addirittura impotente. Ma Mario era estremamente serio e attento. Avevamo parlato della possibilità di progettare un insieme di tavoli per il giardino della rotonda (niente più, tuttavia, che erba brulla e due alberelli); e in precedenza avevamo parlato dell’idea, per questo progetto in Germania, che pezzi di arte pubblica dovessero anche essere qualcos’altro: qualcosa con un significato e magari anche un uso sociale.

Mario era proprio l’artista giusto a cui parlare, lì, a Geislingen. La sua arte era diventata estremamente adattabile e anche aperta a una circostanza e a una situazione fisica. Era in grado di trovare forme e dimensioni proprio come l’acqua trova il suo corso naturale attraverso le pieghe della terra. Era perfetto per Geislingen, in quella desolata e anonima fermata dell’autobus, perché non aveva uno stile grandioso da sostenere e neppure una particolare filosofia estetica. Questa era la libertà che aveva trovato, insieme a qualche altro grande artista della sua generazione: la libertà dallo stile. Aveva sviluppato o trovato o adottato certe forme come l’igloo e il tavolo, alcune figurazioni del movimento come la spirale, il triangolo o il cono, e aveva fatto sua la formula di Fibonacci. Questi erano gli elementi di base, che potevano reggere qualunque materiale, figura, colore e potevano reggere qualunque cosa in qualunque dimensione. L’arte di Mario era la flessibilità stessa; le sue forme sono molto più proiezioni di una forma, o metamorfosi in azione, piene di calda energia. Mario Merz, forse più di ogni altro artista, comprendeva l’essenziale umiltà dell’opera d’arte: quella curiosa e timida risposta a una domanda assente.

Invecchiando divenne più evasivo riguardo al creare. Ma non so più cosa fare, diceva, cosa pensi che dovrei fare? Ed è vero che negli spazi dove lavorava i muri erano coperti di disegni grandi, colorati, qualche volta tre o quattro attaccati uno sull’altro. Erano lì appesi come se attendessero di essere utilizzati. Penso che gli piacesse o addirittura avesse bisogno, per andare avanti, di uno stimolo forte e urgente derivante da un luogo o da una circostanza. Questa era la ragione per cui eravamo lì: alla fermata dell’autobus a Geislingen. Se la gente doveva aspettare lì, perché non creare una struttura e chiedere a un artista di rendere la situazione accogliente? E così, alla fine, Mario progettò una serie di tavoli e panchine curve come la mezza luna turca, e uno più alto e quadrato perché gli uomini vi giocassero a carte come nel famoso dipinto di Cézanne. Furono costruiti in metallo leggero nella locale fabbrica Wmf e quando giunse l’estate erano pronti. I bambini vi giocavano sopra, la gente ci si sedeva e faceva picnic, tutti per lo più inconsapevoli che quei tavoli erano anche un’opera d’arte, nel suo genere, ovviamente. Quando il piccolo appezzamento fu inaugurato, il sindaco di Geislingen offrì a Mario e Marisa un magnifico set di coltelli.

Il punto che voglio sottolineare, con questa storia tedesca, è che apparentemente Mario aveva sviluppato una pratica laconica che non produceva oggetti (nel senso tradizionale) ma situazioni, in verità enormi collage tridimensionali. Non solo tali collage flessibili, rimbalzando come acqua corrente fra le rocce, accoglievano e contenevano tutti i materiali e le sostanze concepibili, per la stessa ragione potevano accogliere anche tutti i colori concepibili. Così, in un periodo artistico che dopo Burri e Fontana era in qualche modo orientato verso il minimale e il monocromo, Mario poteva essere libero di creare cose colorate come se fossero di Picasso. 

Allo stesso tempo la sua pratica era così aperta, disinibita e priva di paura che grazie a lui un luogo così insignificante come la fermata dell’autobus a Geislingen è davvero degno d'attenzione e considerazione. La sua era un’arte priva di preconcetti estetici, e questa è la ragione per cui parlo di umiltà della sua opera. La maggior parte delle altre opere sarebbe stata eccessiva o troppo opprimente e in qualche modo inutile in quel piccolo pezzo di giardino di fronte alla fermata dell’autobus, vicino alla macelleria e alla panetteria. La sua arte, grande e discreta, vi si poteva comunque piegare conferendo alla desolata area una meravigliosa dignità. Che ciò si sia reso possibile nella provincia tedesca, è uno dei suoi grandi risultati: senza l’esempio di questa attitudine non avremmo mai preso in considerazione, mai, uno spazio come quello. Mario è uno dei pochi artisti in grado di fare qualcosa piccolo e intimo anche vicino a cose grandi. Per esempio, i torinesi possono ricordarsi di quell’affascinante piccolo specchio d’acqua coperto da una spirale di crescione verde pallido all’ombra di alberi maestosi, che Mario creò una decina di anni fa al Parco del Valentino per una mostra organizzata dall’amata figlia Beatrice.

Le esperienze del progetto di Stoccarda del 1992 alla fine portarono al programma di interventi artistici lungo il Passante Ferroviario, qui a Torino, che è ora lentamente in costruzione ed è stato inaugurato lo scorso anno, appropriatamente, con il suo grandioso igloo-fontana, nobile come la cupola di una cattedrale. Ma sebbene la dimensione, in questo luogo, fosse importante, è un altro e più intimo ricordo che mi ha fatto pensare alla combinazione Mario + Fontana. A un certo punto nel 1981 cominciammo a parlare di un’opera, un’opera qualunque, da mettere nell’ampio e lussureggiante parco lungo il fiume Fulda a Kassel, un progetto per Documenta 1982 nella quale volevamo solo alcune specialissime opere en plein air.

Come era nel suo carattere, Mario cominciò con il sottrarsi: come doveva farla, e così via. Poi cominciò a camminare nel parco. Gli piacciono gli alberi e l’erba verde. E poi trovò il posto. Dalla passeggiata sul bordo orientale della città il terreno scende ripido verso la piana sottostante. Lì il pendio erboso termina in uno stretto torrente. Oltre il ruscello il terreno è leggermente più alto, fino al punto in cui comincia ad abbassarsi in direzione del fiume Fulda, distante mezzo miglio. Il piccolo ruscello segnava una piega nella terra: il suo punto più profondo e, allo stesso tempo, una linea di movimento: il flusso dell’acqua corrente. A quel punto Mario annunciò che gli sarebbe piaciuto fare un igloo. Poi costruì un modello in cartone: un igloo di pietra o vetro, non l’aveva ancora deciso, ma con un cono rovesciato che entrava nella cupola dall’alto. Era un imbuto, spiegò, attraverso cui certi liquidi potevano venir fatti gocciolare nell’acqua che scorreva al di sotto. Per quanto riguardava i liquidi potevano essere sia vino rosso che olio d’oliva. Guardò il terreno erboso e gli alti pioppi e disse che voleva portare la dolce fragranza dell’olio d’oliva e il forte profumo dello scuro Barolo in quella terra germanica di burro e birra, circondata da campi di grano e patate e barbabietole. 

A volte poteva essere beatamente sentimentale; aveva bisogno della sentimentalità per costruire, almeno per sé, una narrativa che gli consentisse di procedere con la costruzione dell’igloo, ogni volta che si bloccava. La scelta fra vino e olio fu difficile, e per un po’ il modello presentò un tubo che sporgeva dal lato dell’igloo così da poter utilizzare entrambi. Il vino sarebbe fluito dal tubo, l’olio sgocciolato attraverso l’imbuto. Ma poi l’igloo cominciò ad apparire goffo e troppo simile a una macchina per produrre energia. Perse di levigatezza; e dopo mesi di tentativi alla fine Mario si innamorò del colore delle lastre di pietra locale, una ricca e aromatica mistura di marrone dorato e rosso vino, e l’igloo divenne una semplice capanna di pietra sopra al torrente, col suo segreto nascosto all’interno. Alcuni mesi dopo che l’igloo era stato costruito, un violentissimo temporale si abbatté su Kassel. La pioggia fece crescere il piccolo torrente e lo fece uscire dagli argini; l’acqua scrosciante penetrava attraverso le aperture fra le pietre piatte dell’igloo. Quando il temporale si placò e il torrente ritornò al suo tranquillo scorrere trovammo erba e fango e piccoli rami incastrati tra le pietre. Ovviamente gli addetti alla pulizia tedeschi volevano pulirlo, ma l’istinto ci suggerì di lasciarli stare.

Questo ricordo era nella mia mente quando Cristina Mundici e io discutemmo con Mario della fontana-igloo in Corso Lione. L’igloo in sé come forma di lastre di vetro e pietra che scivolano come una cascata. E poi, nell’igloo, sporgenze che avrebbero spruzzato acqua; e il tutto in un ampio bacino. Come con il piccolo progetto di Kassel, lo sviluppo del grande igloo di Torino richiese il suo tempo. È una storia da raccontare un’altra volta. Ma l’igloo adesso è qui, gran finale dell’opera di Mario, e vi rimarrà per sempre, come la fontana del Bernini in Piazza Navona, solo più grande.

Il piccolo intimo igloo di Kassel alla fine venne venduto e spostato sul suolo asciutto del Kröller-Müller Museum Sculpture Park. Non c’è acqua; è circondato da bassi abeti e querce. Ma subito dopo la morte di Mario, il museo inviò un biglietto per gli auguri di Natale con una bellissima fotografia dell’igloo coperto da una neve leggera e farinosa, cioè se non altro acqua gelata. E in quella fotografia, nella neve, l’igloo sembra una tomba davvero adatta al nostro grande capo celtico.

Rudi Fuchs, 15 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

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