«Candore» (1898) di Alfredo Savini, Fondazione Cariverona

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«Candore» (1898) di Alfredo Savini, Fondazione Cariverona

A Bologna un affresco dei Savini, dinastia di pittori felsinei

Un’antologica ripercorre in quasi cento opere la vicenda umana e artistica dei Savini, famiglia di pittori felsinei

Al Museo Ottocento Bologna è in corso fino al 3 marzo 2025 una retrospettiva curata da Ilaria Chia e Francesca Sinigaglia dedicata a una dinastia di pittori felsinei: i Savini. Il progetto espositivo, allineato alle precedenti indagini monografiche condotte dalle due studiose sulle figure di Carlotta Gargalli e Mario de Maria, rientra nel lodevole programma di recupero di personalità ingiustamente dimenticate attive a Bologna nel XIX secolo. Il costituirsi di gruppi familiari in cui, parallelamente ai vincoli di parentela, era trasmessa l’esperienza acquisita in una professione artistica, ha contraddistinto anche la storia dell’arte italiana dell’Ottocento. In molti Stati preunitari gli esempi si sprecano. Come non ricordare nel Lombardo-Veneto i Caliari, i Canella e i Ciardi? E ancora gli Appiani, gli Ademollo, gli Inganni, gli Induno e i Borsa. Nel Granducato di Toscana i Markò, i De Tivoli e i Signorini. E nel Regno delle Due Sicilie i Fergola, i Carelli, i Gigante e i Palizzi. 

A Bologna, antica capitale delle Province Unite, ancor prima di Antonio e Giovanni Boldini, si distingue la famiglia Savini che nella persona del bisnonno Giacomo (Bologna, 1768-1842), del padre Alfonso (Bologna, 1838-1908) e del figlio Alfredo (Bologna, 1868-Verona, 1924) dominerà la scena artistica cittadina dal periodo neoclassico sino al secondo decennio del Novecento. La mostra presenta quasi cento dipinti tra capolavori e inediti provenienti da collezioni private e prestigiose istituzioni museali quali, tra le altre, la Galleria d’Arte Moderna «Achille Forti» di Verona. Lo stesso Museo Ottocento Bologna, presso cui si conservano opere saviniane, ha finanziato e coordinato i restauri di quelle conservate nei depositi del MAMbo, della Pinacoteca Nazionale di Bologna e del Museo Revoltella di Trieste. I discendenti con estrema generosità hanno messo a disposizione dipinti, documenti e fotografie dei tre pittori bolognesi. L’ambizione di presentare per la prima volta un’antologica contenente un focus dedicato a ciascun artista si è rivelata vincente. 

Oltre a favorire la comprensione dell’affascinante affresco entro cui si è dipanata la loro vicenda umana e artistica, tale scelta è riuscita a farne emergere le singole peculiarità, permettendo al visitatore di seguire la narrazione dei diversi svolgimenti biografici correlati alla disamina degli indirizzi di stile. Analizzando le delicate vedute («Mollezza») di Giacomo che, dopo la formazione alla locale Accademia di Belle Arti e l’alunnato presso Vincenzo Martinelli diverrà uno dei paesaggisti più richiesti soprattutto per la decorazione d’interni di «stanze a paese», si comprende come nell’Italia centrale tale cultura figurativa sia stata condizionata da un tipo d’iconografia di ascendenza storico-letteraria. Raffigurazioni idealizzate, rispondenti a precise indicazioni di ordine compositivo e stilistico, destinate al mercato dei «souvenirs de voyage». 

Alla metà del secolo esordisce il nipote Alfonso ottenendo positivi riscontri nell’esecuzione di soggetti storici connotati da caratteri romantici quali «Mario a Cartagine» e, tra gli altri, un soggetto tratto dalla Vita Nuova di Dante, «Io mi sedea in parte...» (1863), in cui emerge l’uso sapiente di colori pastosi e la resa di atmosfere languide, opulente, pervase di un sentore crepuscolare. Successivamente, l’artista orienterà la propria ricerca verso i soggetti neopompeiani e scene di genere d’impronta sentimentale come, ad esempio, «Nydia e Glauco», «Ultimi giorni di Pompei» e «La serenata», molto apprezzati dal mercante Adolphe Goupil. Avviato giovanissimo alla pittura, il figlio Alfredo prosegue la ricerca sulla figura e sul paesaggio che pratica attraverso rigorosi studi dal vero. I tempi stanno però mutando, complici le numerose correnti che, in antitesi al pensiero positivista, rivendicano una dimensione più spiritualistica dell’esistenza. Superata l’oggettiva descrizione della natura, il paesaggio diviene riflesso delle inquietudini e malinconie dell’animo («La raccolta delle albicocche») espresse attraverso una progressiva idealizzazione della forma, una semplificazione cromatica e una meticolosa grafia ideale per esprimere valori simbolici e mistici come in «Auxilium ex alto», «Pace. Tomba tra i cipressi» e «Candore». 

Elisabetta Matteucci, 10 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

A Bologna un affresco dei Savini, dinastia di pittori felsinei | Elisabetta Matteucci

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