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Marco Scotti
Leggi i suoi articoliChi si aspetterebbe di trovare Chris Burden steso a terra, con gli occhi chiusi e avvolto in un sacco, in una vetrina di Bolzano? Eppure, è con questa immagine, evocata da una scultura iperrealista, che si apre «Shine Bright Like a Diamond», la mostra di Jonathan Monk (Leicester, 1969) ad Ar/Ge Kunst di Bolzano fino all’8 novembre, a cura di Francesca Verga e Zasha Colah. Nel segno dell’omaggio all’artista californiano (1946-2015) si snoda tutto il percorso espositivo, sovrapponendo continuamente esercizi di appropriazione a riferimenti personali e improvvisi détournement ironici, a partire dal titolo, ripreso da una canzone di Rihanna e introduzione perfetta per la complessa rete di citazioni che sostiene il progetto.
Una prima, evidente, è dedicata all’esposizione «Diamonds are forever», che Burden aveva messo in scena alla Ikon Gallery di Birmingham nel 1981: in quell’occasione l’artista, appena sbarcato nel Regno Unito, era stato portato nel distretto dei diamanti di Londra e qui aveva speso l’intero budget affidatogli per comprarne uno, a fianco di un identico zircone senza però alcun valore. Proprio questo, all’insaputa di tutti, era stato esposto illuminato solo da una semplice luce, mentre Burden camminava durante l’inaugurazione con il vero diamante in tasca. Monk a Bolzano rilegge questo frammento di storia dell’arte con un’installazione che a prima vista appare quasi come un reenactment: il diamante è dichiarato falso fin da subito però e il ruolo della pietra sta tutto nel significato storico di cui è caricata con la sua messa in mostra (mentre i pantaloni dell’artista sono appesi alla parete della sala seguente, musealizzati e dissacrati).
La seconda sala presenta all’opposto un discorso costruito a parete. Qui i diamanti sono quelli indossati dalle star durante l’Art+Film Gala di Gucci, ogni anno fotografate di fronte all’installazione permanente di Burden al Lacma, «Urban Light» (2008). L’opera, ridotta a mero fondale, tanto da non essere mai riportata nelle didascalie sui giornali, si ripete ossessivamente nella serie di fotografie di celebrità pop come Kim Kardashian, A$AP Rocky, Lenny Kravitz e Jodie Turner-Smith recuperate e presentate in ordine sparso da Monk. Un collage di immagini trovate per una riflessione su come i 202 lampioni storici, risalenti agli anni Venti e Trenta originariamente sparsi in tutta la California, dopo essere stati portati da Burden in un esercizio di ripetizione simbolica e composizione architettonica negli spazi esterni del museo possano diventare oggi pura superficie nella diffusione ossessiva delle immagini.

Una veduta della mostra «Shine Bright Like a Diamond» all’Ar/Ge Kunst di Bolzano. © Ar-Ge Kunst, Photo Tiberio Sorvillo
Come diamanti brillano anche gli zirconi che vediamo materializzarsi negli occhi di un Jonathan Monk diciassettenne, nell’edizione realizzata per Ar/Ge Kunst a partire da una foto del 1987. Qui l’artista, ritratto in procinto di iniziare la Glasgow School of Art, rielabora l’immagine di sé stesso con un’ironia ambigua, dando forma ai suoi sogni di ragazzo rivolti a un futuro da artista.
Altre due citazioni di Burden completano il percorso. Una letterale, che vede l’opera «Diecimila» (1977) dell’artista californiano affiancata da «Diecimila» (2010) di Jonathan Monk, apparentemente identica: se la prima era una riproduzione esatta di una banconota italiana a corso legale, esercizio di tecnica incisoria affidato a Crown Point Press, la seconda è un esercizio di appropriazione totalizzante, consapevole della ricerca di artiste come Sturtevant e Sherrie Levine, per creare il facsimile di un facsimile. Una seconda citazione riporta invece a una dimensione immaginifica, con «In Venice Money Grows on Tree (If in doubt add a Salvo)» (2025), che fin dal titolo traccia una connessione impossibile, se non nell’immaginario personale di Monk, tra la performance del 1978 che vide Burden appendere banconote di un dollaro alle palme del lungomare di Venice, California, e le palme dipinte nei quadri di Salvo, motivo ricorrente e ancora di salvezza dell’artista inglese.
Esercizio di attualizzazione di scritture e pratiche, ma anche di traduzione da un linguaggio a un altro, di equilibrismo tra dato storico universale e frammento e visione personale, quella di Jonathan Monk si rivela, dietro al tributo a un protagonista della storia dell’arte, come ritratto della condizione contemporanea, originale nella consapevolezza dell’impossibilità a essere originali, radicato nel passato e ancorato a una prospettiva rigorosamente personale.

Una veduta della mostra «Shine Bright Like a Diamond» all’Ar/Ge Kunst di Bolzano. © Ar-Ge Kunst, Photo Tiberio Sorvillo