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Marilena Borriello
Leggi i suoi articoliLilith Performance Studio è uno spazio dedicato alla performance contemporanea, fondato quasi vent’anni fa a Malmö da Elin Lundgren e Petter Pettersson. Nato in un ex quartiere industriale, si distingue per la produzione di opere concepite in stretta collaborazione con gli artisti invitati, che trasformano di volta in volta l’ambiente in un paesaggio esperienziale. Negli anni, Lilith ha ospitato progetti di artisti come Tori Wrånes («Your Next Vacation is Calling», 2014) e Molly Lowe («Game On», 2018), affermandosi come punto di riferimento per una ricerca che attraversa teatro, arti visive e sperimentazione spaziale. In questo contesto, la compositrice e artista lituana Lina Lapelytė, attualmente in residenza a Malmö (Iaspis Residency Grant, autunno 2025), presenta la sua nuova creazione, «Study of Slope». Il progetto, avviato nel 2020 e più volte rimandato a causa della pandemia, è stato mostrato in varie versioni in Europa; al Lilith assume la sua forma originaria, concepita appositamente per lo spazio dello studio. L’installazione performativa ruota attorno a un coro non professionista, composto da persone che si definiscono prive di orecchio musicale. Le loro voci si muovono in un paesaggio di ortiche, piante dalla doppia natura, irritante e curative, che agiscono come attivatori di presenza per lo spettatore: costringono chi osserva a percepire i confini dello spazio e dei corpi, introducendo una dimensione di vulnerabilità fisica e sensoriale nell’esperienza della performance. «Study of Slope» prende ispirazione dal romanzo Living in a Land (2017) di Sean Ashton, un’autobiografia immaginaria costruita interamente sul negativo, in cui il narratore racconta soltanto ciò che non ha fatto o non farà mai. Lapelytė traduce questa «grammatica dell’assenza» in un’esperienza corale di voci «fuori tono», costruendo un fragile equilibrio tra dissonanza e comunione, tra uniformità e deviazione. L’abbiamo incontrata a Malmö, a pochi giorni dalla première di «Study of Slope» (in programma fino al 7 dicembre al Lilith Performance Studio), per parlare della genesi di questo progetto e, più in generale, del suo percorso, fino alla recente partecipazione a Performa 2025 a New York con «The Speech».
Com’è nata la collaborazione con Lilith Performance Studio e perché ha scelto di realizzare «Study of Slope» proprio per questo spazio?
È successo prima del Covid, anzi prima della Biennale di Venezia del 2019. Ho apprezzato molto l’invito di Lilith, arrivato prima di «Sun & Sea», quando l’interesse nei miei confronti sembrava nascere più da una curiosità autentica per la mia pratica che dalla mia fama. Mi piaceva anche l’idea di lavorare in uno spazio che realizza solo due progetti all’anno: questo mi avrebbe permesso di sviluppare l’idea delle piante e delle ortiche lasciandole crescere in modo naturale, senza forzature. Un contesto così mi consentiva di adottare un approccio diverso rispetto a quello richiesto in uno spazio espositivo tradizionale, dove i tempi sono serrati. Da lì è iniziata la riflessione su come far concretamente crescere l’idea.
Poi la pandemia ha rallentato tutto.
In realtà avevamo già fatto abbastanza progressi con il progetto e avevamo pensato di inserire anche dei musicisti dal vivo. Fino a un certo punto le restrizioni erano ancora relativamente flessibili, ma poi sono arrivate nuove norme e, viaggiando dal Regno Unito, la situazione per me si è complicata. Ci siamo trovati a dover capire come procedere nel caso in cui non fosse stato possibile viaggiare. Sono stati mesi di grande incertezza e, alla fine, abbiamo dovuto cancellare la performance.
Quindi «Study of Slope», inizialmente pensato per Lilith Performance Studio, è stato poi presentato in Francia e negli Stati Uniti?
La prima tappa di «Study of Slope» è stata in Francia con la mostra‑performance «The Mutes» alla Lafayette Anticipations di Parigi (2022). Si è trattato di una performance di lunga durata, sei settimane, sei ore al giorno, un’esperienza ambiziosa per un museo, perché ha richiesto un mindset diverso: non basta allestire qualcosa per l’inaugurazione e lasciarlo lì, è un lavoro ad alta manutenzione, che richiede cura verso le piante e le persone coinvolte.
Lina Lapelyté, «Study of Slope», 2025, Malmö, Lilith Performance Studio. Photo: Petter Petterson
In che modo questa esperienza ha fatto evolvere il progetto?
Da Parigi il progetto ha mostrato tutta la sua flessibilità: può trasformarsi in uno spettacolo di una sola sera, in uno spettacolo teatrale o adattarsi a diversi contesti. In un certo senso, è diventato un framework declinabile in molteplici forme. Il progetto è cresciuto fin dall’inizio, evolvendosi rispetto alla prima presentazione, soprattutto grazie al testo di Sean Ashton, Living in a Land, che ha influenzato profondamente il mio approccio alla performance. La messa in scena cambia continuamente: collaborando con persone locali emergono nuovi personaggi, mentre l’impianto del progetto resta stabile. In questa ultima versione, la performance ha una struttura di lunga durata: il pubblico entra e esce liberamente, a metà tra teatro e installazione. Il paesaggio di ortiche cresce da metà agosto ed è curato costantemente, proprio come avevo immaginato. Ho presentato il pezzo in diversi contesti, ma qui la parte «difficile» appare naturale, e vederlo prendere forma è davvero bellissimo.
In «Living in a Land», Sean Ashton parte da un vecchio adagio: ci definiamo anche attraverso ciò che non siamo. Nella performance, persone che normalmente non canterebbero danno voce a ciò che l’autore stesso non ha mai fatto, immerse in un campo di ortiche. Il risultato ricorda quasi un atto magico, un rituale di guarigione. Non trova?
Le voci dei partecipanti e l’installazione hanno una qualità forte, quasi magica. Allo stesso tempo, le persone attraversano un processo quasi terapeutico: chi canta in modo stonato spesso si riconosce subito, dicendo «Ah, sono io!», mettendo in luce lo stigma legato alla voce. A differenza di arti visive o danza, la musica resta un campo conservatore, con rigide aspettative su che cosa sia considerato valido. Chi partecipa sa che il canto non sarà «perfetto», eppure il punto non è questo: ogni persona vive un’esperienza significativa, e anche il pubblico può attraversare un processo simile, se è disposto a trasformare il proprio modo di pensare la musica. È un lavoro filosofico che pone domande essenziali: chi ha diritto di parlare? Come ascoltiamo? Chi può avere voce e chi ne è escluso?
D’altronde, guarire può anche voler dire concedersi di vedere le cose in modo diverso.
A volte è stato molto toccante. Negli Stati Uniti, per esempio, un uomo mi ha raccontato che si era sempre vergognato di cantare davanti ai suoi figli (ha quarant’anni, i bambini otto e undici), ma dopo la performance mi ha detto: «È come una nuova vita per me. Dopo questo entrerò in un coro. Mi sono liberato di un blocco». Ecco, per me il senso è proprio questo: non si tratta tanto di canto, quanto di come impariamo a coesistere.
In questa prospettiva, le ortiche assumono un significato particolare. Perché ha scelto proprio questa pianta selvatica?
Credo che, in quel periodo, pensassi molto ai giardini e alla crescita. Come artista, ti interroghi continuamente su queste cose. E riflettendo sulle piante, ho iniziato a vedere un parallelismo tra l’ortica e le persone che cantano «fuori tono». È una pianta estremamente benefica, quasi medicinale, eppure molti la detestano. Guarisce, ma al tempo stesso punge: se cresce nell’orto, tende a invadere tutto; cerchi di eliminarla, e nel farlo ti ferisci. Per me, l’ambivalenza di questa pianta rispecchia quella del canto «stonato». Entrambe hanno qualcosa di contraddittorio: l’ortica è insieme curativa e urticante, come il canto è insieme fragile e potente. A volte scherzo dicendo che nessun compositore potrebbe scrivere melodie come queste, perché l’imprevedibilità di chi non è intonato è unica, sempre diversa. Ed è proprio lì, in quella perdita di controllo, che per me risiede la bellezza.
Lina Lapelyté, «Study of Slope», 2025, Malmö, Lilith Performance Studio. Photo: Petter Petterson
Come ha ricordato prima, «Study of Slope» si sviluppa in un ciclo continuo di circa tre ore, con il pubblico libero di entrare e uscire. Come fa un coro non professionista a sostenere energia e concentrazione?
Non è semplice, ma nemmeno impossibile. Da «Sun & Sea», dove abbiamo cantato per nove ore sulla spiaggia, ho imparato molto. Tendo sempre a testare tutto su di me: se propongo qualcosa agli altri, devo prima poterlo fare anch’io. In questo caso non posso partecipare davvero, perché non riesco a cantare fuori tono, o posso farlo solo volontariamente, percependo comunque le note sbagliate. È una prova impegnativa, con pause, che richiede concentrazione più che sforzo fisico. Dall’esperienza di «Study of Slope» a Parigi, dove hanno cantato per sei ore di fila, ho visto che sì, è faticoso, ma accade qualcosa di interessante: si entra in una sorta di spazio meditativo, in cui il dare diventa anche ricevere. Si entra in un ciclo di energia in cui offri e ricevi allo stesso tempo. Credo che questo tipo di lavoro renda possibile entrare in quello stato mentale in cui non senti più la fatica, ma al contrario ti senti nutrito, rafforzato. In fondo, è come in certi rituali collettivi o pratiche spirituali: cantare insieme diventa un atto che non consuma, ma rigenera.
Nelle sue performance non sembra tanto che lei voglia evocare immagini, quanto crearle, spesso attraverso frizioni e imperfezioni che le rendono davvero significative. Penso, per esempio, a «Hunky Bluff» (2014), in cui un coro di donne interpreta un’aria per castrati. Quanto è importante per lei questa tensione che attraversa le sue opere?
Vorrei riproporre «Hunky Bluff», un coro di donne che canta un’aria da castrato con voci femminili molto basse. Il pezzo mi ha riportato all’esperienza adolescenziale nel coro, quando la voce era percepita in modo fortemente legato al genere, spingendomi a interrogarmi su queste convenzioni. Molto del mio lavoro nasce proprio dal desiderio di mettere in discussione la tradizione musicale classica e il modo in cui attribuiamo genere alle voci. Avere un coro di donne dal timbro «maschile» significava stare insieme, ma anche sfidare regole e aspettative sul potere femminile. C’era poi un aspetto ironico: ascoltiamo spesso l’opera in italiano senza comprenderne le parole, e la lingua ci sembra misteriosa e sublime; ma una volta tradotta, rivela testi semplici, quasi banali, e proprio in questo scarto si apre un nuovo spazio di senso. Infine, lavorare al «Serpentine Pavilion» ha aggiunto una dimensione ulteriore: lo spazio architettonico ha influenzato la costruzione stessa della performance, un dialogo che continuo a trovare estremamente stimolante.
Nei suoi lavori, infatti, ricorre spesso l’uso di spazi non convenzionali. Che cosa le interessa di questi luoghi?
Non è forse potente usare uno spazio non convenzionale? Probabilmente perché la mia pratica non è mai completamente definita: non mi considero né musicista né artista visiva in senso stretto, ma qualcosa a metà. Il lavoro non appartiene a uno spazio preciso: mi interessa quando lo spazio contribuisce all’opera o quando l’opera interagisce con lo spazio. Come spettatrice, non riesco mai a isolare la musica dal contesto: tutto ciò che circonda l’esperienza conta. Per me è importante non solo il contenuto, ma anche la cornice che lo ospita, e cerco sempre queste relazioni. Anche negli spazi tradizionali, mi piace ripensare cosa significhi davvero esserci.
Lina Lapelytė, in collaborazione con Nouria Bah, Anat Ben-David, Angharad Davies, Sharon Gal, Rebecca Horrox, e Martynas Norvaišas, «In the Dark, We Play», 2025, video still di Martynas Norvaišas, commissionato da Jencks Foundation at The Cosmic House
Intervenire in uno spazio non convenzionale comporta però sempre delle sfide. Come è stato lavorare a «Currents» (2020), il suo intervento site specific a Riga?
Sono molto grata ai curatori che hanno creduto in questa idea. Spesso si ha un progetto in mente e ci si chiede: «Chi penserà che sia possibile realizzarlo?» Avere qualcuno che ci crede rende tutto realizzabile. Mi interessa lavorare su ciò che sembra impossibile: se riesci a immaginarlo, significa che può esistere. «Currents» è nato dopo la mia esperienza alla Biennale di Venezia del 2019, in un periodo segnato dal Covid-19. Volevo distanziarmi da ciò che avevo fatto prima ed esplorare nuove idee. L’invito a partecipare alla Biennale di Riga è stato speciale anche per il mio legame personale con la città e con la regione baltica. Ho collaborato con l’architetto Montas Pateraitis: il fiume era un elemento centrale e inizialmente avevamo immaginato di trasportare il legno lungo il corso d’acqua fino al sito della performance. Alla fine non è stato possibile, perché i fiumi oggi non sono più vie di trasporto commerciale, ma abbiamo comunque reso visibile quell’immagine con un’installazione leggera di tronchi, accompagnata da sound installation, narrazione e canto, con performance direttamente sui tronchi. Il legno utilizzato proveniva da scarti destinati all’industria cartaria: non abbiamo «distrutto» nulla, ma tutto si è inserito in un circuito di economia circolare. L’installazione è rimasta per tutta la durata della Biennale. È stata un’esperienza intensa e significativa, così speciale che vorrei poterla ripetere. In quel periodo, con le rivoluzioni in Bielorussia, la questione del legno tagliato e la guerra sembravano parallele: il ritmo della deforestazione e quello della violenza sono, per me, strettamente connessi, quasi a livello subconscio.
Di recente hai realizzato «In the Dark We Play» (2025), un intervento site specific concepito per The Cosmic House di Londra. Com’è nato questo progetto?
In realtà si tratta di due lavori collegati. «In the Dark We Play» (2025) è un’installazione video a sette canali, ospitata nella Cosmica House, un museo-casa dedicato all’architetto e studioso di architettura postmoderna Charles Jencks. Per il progetto, ho invitato sei collaboratori con cui lavoro da tempo a vivere nella casa e a esplorare temi cosmici, prendendo spunto dal saggio di Ella Piner sul «cosmic oval». Il lavoro è molto poetico e gioca sulla cosmologia come modo per distanziarsi dai temi degli ultimi due anni, offrendo una prospettiva più ampia e un respiro diverso. Dall’installazione è nato anche un lavoro performativo, «Kosmiczny Dom» (2025), un laboratorio teatrale con attori londinesi che reinterpretano alcune parti sul palco. La performance è stata presentata ad aprile e il progetto complessivo unisce installazione, narrazione poetica e teatro in un’unica esperienza immersiva.
Quest’anno «The Speech» sarà presentato a Performa 2025 a New York. In che cosa questa versione si differenzia da quella che ha realizzato lo scorso anno alla Bourse de Commerce di Parigi?
La differenza principale sta nel contesto e nel modo in cui il progetto viene realizzato. A Parigi avevamo lavorato con diverse scuole tramite workshop, per poi raccogliere il materiale alla Bourse de Commerce. A New York, invece, è coinvolta un’intera scuola: il pezzo viene insegnato come lezione, il che è straordinario. Daphne Ayas, la curatrice, sogna di creare una vera e propria «scuola del linguaggio animale», trasformando la performance in un momento di apprendimento e condivisione. Non si tratta solo di far «recitare» i bambini: l’idea è proporre loro modi di ascoltare, connettersi e scoprire gli animali, facendo della lezione uno spazio di esperienza attiva. In questo senso, i bambini imparano a mettersi nella posizione del performer, come gli adulti in «Study of Slope». A New York la performance sarà più ampia: coinvolge circa 300 bambini, ma in ogni replica ne partecipano 100, che si alternano in tre turni.
Che cosa spera che il pubblico porti con sé dopo aver visto «Study of Slope» o in generale le sue performance?
Per me, ciò che conta davvero è come conviviamo e come ci connettiamo gli uni con gli altri. Credo che questo sia anche ciò che desidero dal mio lavoro: che il pubblico possa, in qualche modo, entrare in risonanza con alcune idee e forse ripensare a come essere e a come possiamo coesistere, mettendo in discussione tutto questo. Siamo così saturi, così separati. Se un’opera d’arte può favorire un senso di vicinanza, allora credo che qualcosa possa emergere in ciascun spettatore e aprirsi davvero. Curiosamente, spesso ci consideriamo molto tolleranti, ma in realtà non sempre lo siamo.