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Arabella Cifani
Leggi i suoi articoliL’anno giubilare ha prodotto, come d’uso, una fioritura di mostre e mostricine su tutto il territorio italiano, che le varie diocesi, soprattutto, hanno dedicato a temi devozionali e a quei culti locali che nel nostro territorio sono veramente infiniti. Non c’è paese, infatti, dal Trentino alla Sicilia, che non esalti la devozione a questo o a quel santo ritenuto miracoloso e la cui storia, spesso, si trasforma in leggenda, in favola, in fantasia, ma che è comunque sempre bello ascoltare.
In quest’ottica, il Museo Diocesano di Tortona (Al) ha organizzato la mostra «Pellegrini di Speranza. Bovo, Contardo, Rocco», aperta fino al 30 novembre. E non è una mostra banale. Allestita dall’Ufficio Beni Culturali della Diocesi in collaborazione con la Commissione di Arte Sacra, è curata da Lelia Rozzo, responsabile del Museo Diocesano di Tortona, e dallo studioso Emiliano Stefenetti, che hanno realizzato anche un pregevole catalogo (LineLab.edizioni). Gli interventi conservativi sono stati possibili grazie a Regione Piemonte, Fondazione Cassa di Risparmio di Alessandria, Fondazione della Comunità della Provincia di Pavia, in sinergia con i fondi Cei e le realtà locali. Supporto fondamentale per la realizzazione della mostra è stato offerto dalle Fondazioni Cassa di Risparmio di Tortona e Comunità della Provincia di Pavia, dai Lions e dai Rotary Club di Tortona, da Sacro Ordine Costantiniano di San Giorgio e da altri enti.
Sono tre le figure emblematiche di santi pellegrini su cui si concentra la mostra: san Bovo, san Contardo e san Rocco, molto venerati nel territorio tortonese e alessandrino.
San Bovo, nobile cavaliere di origine provenzale, nacque intorno al 940. In un primo tempo scelse la via delle armi per difendere la sua terra dalle incursioni saracene. Molte le sue valorose imprese, culminate nell’espugnazione della roccaforte di Frassineto al fianco di Guglielmo I di Provenza. Stanco della guerra, abbandonò le cose terrene e promise di recarsi ogni anno a Roma sulla tomba di san Pietro, vivendo nella preghiera e nel raccoglimento. Per il suo viaggio Bovo attraversava le Alpi percorrendo la via Francigena e proseguendo poi verso la via Postumia, che toccava Tortona e Voghera. Durante uno di questi pellegrinaggi, fu colto da una febbre maligna di cui morì a Voghera il 22 maggio 986. Sulla sua tomba si verificarono presto miracoli e fu costruita una chiesa documentata fin da 1119. La sua iconografia lo raffigura come un cavaliere elegantemente vestito che regge un vessillo su cui campeggia un bove (a ricordarne il nome). Così lo dipinse il pittore di area tortonese Manfredino Bosilio nel 1495 in un polittico esposto in mostra. Perfino Guercino lo raffigurò in una pala per la Chiesa di San Sebastiano a Renazzo di Cento (Fe), in cui si vede il santo sventolare una grande bandiera su cui campeggia un bove e che pare un po’ un’insegna da macelleria di carni di pregio. Sarebbe interessante sapere se il semileggendario cavaliere san Bovo si lega, e come, a Bovo d’Antona, mitico protagonista inglese di una delle leggende cavalleresche più diffuse in tutta Europa nel Medioevo: a tratti si direbbe che siano storie che viaggiano in parallelo, ma è un caso da studiare.
Gli altri due santi protagonisti della mostra sono un po’ meno complessi. San Contardo è realmente esistito ed apparteneva alla famiglia degli Estensi con una sorella regina d’Ungheria. Nel 1235 divenne Cavaliere del Santo Sepolcro ma, sull’esempio di san Francesco, abbandonò le ricchezze terrene e i diritti nobiliari per vivere in povertà e come pellegrino del Vangelo sulle strade di Terra Santa e d’Europa. Contardo visse in santità e penitenza fino a 33 anni, quando si mise in cammino da Ferrara verso Santiago di Compostela. Arrivato a Broni (Pavia), si ammalò ed espresse il desiderio di essere sepolto in quel luogo qualora vi fosse morto. Cacciato dall’oste infastidito dai suoi lamenti di agonia, morì in un tugurio il 16 aprile 1249. A Broni si verificarono immediatamente prodigi sulla sua tomba e il suo corpo fu traslato nella Basilica Minore di San Pietro Apostolo, dove si trova tutt’ora. Contardo divenne patrono di Broni e copatrono di Modena. L’iconografia e le opere presentate in mostra lo raffigurano solitamente in agonia sdraiato al suolo, sempre però con un aplomb elegante e distinto, visto il casato da cui proveniva.

Manfredino Bosilio, «Polittico di San Bovo», 1495
Dei tre santi indagati il più celebre e venerato è però san Rocco, la cui vita si muove fra agiografie, tradizioni, leggende e molta confusione. Nato a Montpellier, in una nobile famiglia, a vent’anni era già orfano di entrambi i genitori. Donò tutte le sue ricchezze ai poveri, si vestì da pellegrino e si incamminò per Roma. In Italia infieriva la peste e Rocco curò e risanò gli ammalati che incontrava lungo il cammino. Restò alcuni anni a Roma prima di riprendere la via del ritorno. A Piacenza si ammalò di peste ma ne guarì. Intanto parlava con angeli e penitenti, guariva malati e compiva miracoli d’ogni genere. Quasi giunto a casa, venne scambiato per una spia e chiuso in una prigione dove morì (sempre dialogando con gli angeli). Alla sua morte si riconobbe il suo lignaggio e la sua eroica fede e sulla sua tomba sorse la prima chiesa a lui dedicata. In tutto questo via vai per l’Italia, il suo culto si diffuse velocemente da Nord a Sud e Rocco divenne subito potente patrono e protettore contro la peste.
Difficile capire quante braccia, quante teste e quante ossa di san Rocco siano sparse per le chiese europee: una quantità inverosimile. L’iconografia di san Rocco è invece abbastanza fissa: vestito da pellegrino, mostra le gambe nude e la piaga della peste su una coscia. Ai suoi piedi c’è sempre un cane, che la tradizione vuole fosse quello che gli portava tutti i giorni una pagnottella quando era ammalato. La mostra espone una serie di bei reliquiari di san Rocco di varie epoche con ossa di braccia e molti altri ossicini incapsulati in artistici contenitori: erano altri tempi per le devozioni e il culto delle reliquie e bisogna prenderne atto.
Le 45 opere esposte provengono dalle parrocchie della Diocesi di Tortona e da importanti istituzioni ecclesiastiche e museali italiane. Sono dipinti, sculture, incisioni, oreficerie e oggetti liturgici, alcuni delle quali esposti per la prima volta al pubblico.
Boccaccio nella novella di Frate Cipolla già si beffava della credulità popolare nelle reliquie, ma non di certo della fede. Noi figli (spesso degeneri) della Riforma, dell’Illuminismo, del Positivismo e di tutto il codazzo delle filosofie moderne, abbiamo perso completamente il senso dell’importanza del culto dei santi e delle reliquie. Un culto da non irridere: chi mai si permetterebbe di prendere in giro una persona che tiene con sé ricordi cari di un defunto? I santi sono molto di più nell’ambito cristiano; sono esempi, guide, sostegni, che riteniamo abbiano raggiunto il cielo e per noi da lassù intercedano e, dunque, quanto resta di loro, corpo compreso, ci interessa e ci riguarda. In Italia la straordinaria densità di reliquie ha contribuito alla nascita e allo sviluppo dell’identità delle nostre città e borghi; con una ricaduta fondamentale sulle devozioni popolari, sulle forme di spiritualità, sui pellegrinaggi, sugli edifici religiosi e soprattutto sulle opere d’arte cristiana, come i preziosi reliquiari, ma anche quadri, sculture, ecc. Per una città o un paese possedere una reliquia celebre di un santo famoso, meglio se taumaturgo, era considerato segno di protezione e di benedizione divine, e accresceva il prestigio e il potere di quel luogo sia sul piano ecclesiastico sia su quello politico.
Ben vengano quindi mostre come questa che ci permettono di riscoprire storie che ci parevano dimenticate e sepolte e che invece stanno al fondo del nostro Dna di italiani e di appartenenti a una grande civiltà cristiana, anche se magari non lo vogliamo riconoscere.

Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, «Madonna con il Bambino in trono e i santi Francesco, Antonio abate e Bovo», 1611-12 ca, Renazzo di Cento (Fe), chiesa di San Sebastiano