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Samantha De Martin
Leggi i suoi articoliNegli spazi del corner MaXXI i passi in ottone di Lucia Cantò, su cuscini di cotone, attraversano la memoria dell’artista per attivare una narrazione onirica che guida verso un luogo in cui la notte diventa esperienza condivisa, paesaggio da abitare.
Proprio dalla notte, intesa, come si legge in catalogo, come «territorio poroso», in cui i contorni sfumano lasciando spazio al vagabondaggio della mente, gli studenti e le studentesse del Master in Art Management della Luiss Business School con la supervisione scientifica di Luca Lo Pinto hanno tratto ispirazione per una mostra a ingresso libero, in corso fino all’11 gennaio.
«Quanto buio serve per vedere» è il titolo del percorso pensato dai 23 studenti del Collettivo Curatoriale per indagare tematiche trasversali che spaziano dalla vita sociale all’introspezione, dall’onirico alla contemplazione. La risposta è una riflessione corale, lasciata volutamente aperta, affidata a dieci artisti italiani e internazionali, diversi per generazione e linguaggio, selezionati dagli studenti del Master.
«Questa mostra, spiega Luca Lo Pinto, è il risultato del progetto di ricerca durato un anno di un gruppo di studenti con background e interessi diversi, che si sono confrontati con l’idea stessa di fare una mostra. Una sfida complessa che non significa disporre oggetti nello spazio, ma riuscire a dare la visione di un pensiero all’interno di uno spazio».
Elisabetta Benassi, «Casse-Pipe», 2016, nella mostra «Quanto buio serve per vedere» al MaXXI, Roma. Photo: Collettivo Curatoriale Master in Art Management della Luiss Business School
Se «Fluxus» di Giulia Marchi, attraverso 24 polaroid a colori che restituiscono una falsa luna, trasforma il processo fotografico in un’arte che esplora la realtà con logiche inaspettate, Leandro Erlich affida la sua Nuvola in continuo mutamento alla sfera del subconscio. In mostra «The Cloud (France)» trova collocazione in un cerchio intimo progettato dall’architetto Allegra Girolami. «Quando, con l’avanzare del buio, i pensieri affollano la mente, noi stessi diventiamo nuvole mutevoli e instabili», spiega il Collettivo. Ad assecondare il concetto stesso di mutevolezza dell’inconscio è un allestimento dinamico, privo di spazi chiusi, simile a un flusso narrativo. Se Michel Auder con «Narcolepsy» propone un’esperienza audiovisiva onirica attraverso immagini a metà tra incubo e fiaba, Elisabetta Benassi con «Casse-Pipe» riflette sulla denigrazione di un bisogno fisiologico come il riposo. In un’epoca che rifiuta il sonno a favore della veglia per perseguire obiettivi di massima produttività il nemico comune è il sonno senza sogni che impedisce di esplorare il proprio mondo interiore. Spazi liberati dove le gerarchie si dissolvono in reti di relazioni sono i rave della Golden Age che Mattia Zoppellaro restituisce sotto forma di immagini, epifanie intermittenti che esplorano la relazione tra soggettività e collettività. In questa notte profonda che rende incerte le relazioni contemporanee l’opera «I like you a lot» di Nicola Gobbetto (due telecamere di sorveglianza che si osservano a vicenda) è uno spiraglio di luce, un invito a guardare e a guardarsi con lucidità.
«Quanto buio serve per vedere» scivola poi nel rituale del clubbing, tra i sentieri collettivi della notte affidati da Mark Leckey alla ghost story «Fiorucci made me hardcore», una lente poetica sulla notte eletta a paesaggio del sociale.
Spazio quindi alle tre opere finaliste del bando Premio Internazionale Generazione Contemporanea, il concorso organizzato dalla Luiss Business School e aperto ad artisti under 35 provenienti da tutto il mondo. Accanto a Lucia Cantó, vincitrice del Premio con «10 Years before me», ci sono gli altri due finalisti, Friedrich Andreoni e Maria di Stefano. «Untitled (Reflector Series)» di Andreoni è un’installazione che incarna l’ambivalenza tra luce e oscurità concepita come relazione di necessità. L’opera, che richiama la nicchia del Nettuno dei Bagni di Mario a Bologna, diventa un processo relazionale che trova consistenza in un tappeto di riflettori recuperati da vecchie torce. Privati della loro funzione originaria sono ancora capaci di conservare una memoria della luce.
A conclusione del percorso, dimensione collettiva e solitaria, buio e luce trovano raccordo nel lavoro di Maria Di Stefano «A Man’s Shadow and a Scooter», una fotografia che inscena un momento sospeso. La notte diventa un invito ad attraversare soglie e a ridefinire identità afferrando ciò che sfugge, abituando lo sguardo ad aprirsi alle infinite possibilità che il buio accompagna.
Friedrich Andreoni, «Untitled (Reflector series)», 2025, nella mostra «Quanto buio serve per vedere» al MaXXI, Roma. Photo: Collettivo Curatoriale Master in Art Management della Luiss Business School