Il lavoro di Kader Attia (Parigi, 1970) potrebbe essere riassunto nell’interrogativo: «La spiritualità ci permette di sfuggire alla morsa della storia?». L’artista si pone questa domanda nei modi più diversi, producendo quasi sempre immagini potenti in cui forma e contenuto si fondono, perché la politica non è mai lontana dalla poesia, così come la teoria non è mai lontana dalla pratica. Fotografie, video, collage, sculture, oggetti, luci al neon e installazioni si mescolano pertanto nella mostra «Kader Attia. Discesa al paradiso» al Mo.Co. fino al 22 settembre, in un percorso che tocca purgatorio, inferno e paradiso, ultima tappa di una carriera in perenne movimento.
Lo stesso vale per l’ultimo film di Attia, «Pluvialité 1», presentato come dittico monumentale che privilegia le culture minoritarie e le tradizioni ancestrali, e, nello specifico, il buddismo della Thailandia del Nord.
Temporalità
Un altro grande quesito dell’artista riguarda la riparazione, sia in senso letterale sia figurato, e del suo corollario, la lesione. Attia sostiene che «è impossibile immaginare la riparazione senza la precondizione della ferita». Nel museo di Montpellier i visitatori sono accolti da «Culture. Another Nature Repaired» (2014), un «inferno» costituito da «visi sfregiati», una serie di busti in legno tagliati con l’ascia, collocati su strutture metalliche che fungono da scheletri stilizzati. La brutalità della Prima guerra mondiale è tangibile e il conflitto è ricordato, più che suggerito, nonché implicitamente denunciato.
Segue «Intifada. The Endless Rhizomes of Revolution» (2016), un’installazione altrettanto emblematica sul conflitto anch’esso traumatico del 1987 (una versione più grande è stata presentata nella sezione «Unlimited» di Art Basel 2024). Queste opere, dal contenuto drammatico e dall’aspetto violento, sono tuttavia intrise di una certa poesia, evidente soprattutto in «Untitled» (2024), un campo di ventuno bastoni della pioggia, strumenti musicali a percussione, i cui movimenti coordinati producono un «balletto meccanico» con un ritmo scandito dal suono che essi stessi emettono. Vi è anche qui una questione di temporalità, nozione che trascende l’intero percorso, perché prendersi del tempo è un prerequisito essenziale per cogliere tutte le dimensioni di questo lavoro, con livelli di lettura molteplici come gli strati che lo compongono.
Ciò è particolarmente evidente nella prima sezione della mostra, «Purgatorio», dove l’artista, che ha la doppia nazionalità francese e algerina e vive a Berlino, ha posto le basi del suo lavoro, denunciando il capitalismo, il colonialismo e le problematiche legate a confini e differenze. La sua perfetta conoscenza delle culture europee e africane, e delle loro reciproche influenze, gli permette di creare opere ibride e miste, che rifuggono da un’unica visione o interpretazione.