Alessandra Mammì
Leggi i suoi articoliEra nato a Lucca nel 1896 ma a soli tre anni sbarcò a San Paolo insieme alla famiglia e ad altri tre milioni di italiani che cercavano fortuna nel più grande Paese del Sud America. Il padre di Alfredo Volpi era un artigiano, collega di quei maestri falegnami, stuccatori e carpentieri che da una parte costruivano le nascenti metropoli del Brasile, dall’altra erano i messaggeri della grande tradizione italiana. Per questo ebbero fortuna oltreoceano, al punto da fondare anche scuole tecniche che preparavano non solo a piallare il legno o forgiare il ferro ma anche a formare una generazione di eccellenti pittori decoratori molto richiesti per affrescare edifici sacri o case private.
Alfredo Volpi fu uno di questi. Abitava a Cambuci, quartiere popolare di casette basse e facciate colorate che non solo non ha mai abbandonato ma che più tardi fu fonte della sua ispirazione. Aveva una moglie di colore di nome Judite e una marea di figli propri e adottati. Dominava un atelier caotico, frequentava la comunità italo-brasiliana intorno al gruppo di Santa Helena, partecipava alle iniziative artistiche fortemente finanziate e volute dal governo fascista che in nome di una Grande Italia promuoveva per tutto il continente mostre itineranti dei nostri artisti, da Marinetti ai pittori del Novecento.
Sebbene nel 1930 fu persino citato da Margherita Sarfatti nell’edizione ampliata della sua Storia della pittura moderna come uno dei pittori più interessanti d’oltreoceano, non risulta che Volpi fosse particolarmente coinvolto dall’entusiasmo nazional-patriottico. Le cronache lo descrivono come un personaggio appartato, poco incline ai viaggi e alla vita mondana. Aveva uno straordinario talento manuale, amava costruire da solo persino il metro da lavoro e confezionare i suoi quadri a partire dalla costruzione di un telaio fino alla produzione di pigmenti. Era rigoroso nella sua ricerca ma non sconfessava il mestiere di artigiano e decoratore. Dei suoi primi lavori su committenza era solito dire con ironia tutta brasiliana: «Li ho fatti io, ma non sono miei».
Queste caratteristiche, unite alla ricerca che lo vedeva ripetere quasi ossessivamente la stessa composizione di facciate appiattite e vedute architettoniche, schiacciate in una visione modulare ritmata dal colore steso in sottili strati di tempera, nonché la sua poetica perennemente in bilico fra astrazione e figurazione, avevano suggerito a più di un critico il paragone con le nature morte di Giorgio Morandi e il tempo sospeso dei paesaggi di Carlo Carrà.
Ma Volpi ha il pregio di non somigliare ad altri che a se stesso. E se gli italiani vedono nei suoi quadri il Novecento di Margherita Sarfatti o la purezza essenziale di un’architettura giottesca, i brasiliani gli riconoscono invece la spontaneità di un linguaggio popolare unita alla più rigorosa astrazione e ricerca sul colore che è tipica delle loro avanguardie astratto-concrete.
Ed entrambe le visioni convivono nella bella, rara e completa retrospettiva «Alfredo Volpi. Lucca-São Paolo, 1896-1988» che il curatore e scrittore Cristiano Raimondi, specialista in arte brasiliana, ha allestito al Centro per l’Arte Contemporanea Luigi Pecci di Prato (fino al 9 giugno). Oltre 70 opere dagli anni Quaranta ai Settanta, tutte in arrivo dal Brasile dove Alfredo Volpi è tuttora un pittore mitico ricercato dal collezionismo più sofisticato, tanto da raggiungere quotazioni così alte che ne rendono impossibile la nascita di un mercato altrove.
Pochissime sono le sue opere in Europa e una solo risulta essere in Italia, in collezione al Museo Correr di Venezia che l’acquisì in una delle Biennali del dopoguerra dove il nostro fu più volte invitato nel Padiglione Brasiliano. Ed è proprio la Biennale del 1950 la sua grande occasione di arrivare in Italia. Prima e ultima visita nel suo Paese d’origine che gli permise di vedere Giotto a Padova e Piero della Francesca ad Arezzo. Ma due vere scoperte furono per lui da una parte il gioco e l’intreccio delle aste nella «Battaglia di san Romano» di Paolo Uccello, dall’altra soprattutto l’incontro con Margaritone d’Arezzo, un primitivo duecentesco che lo conquistò per il ritmo regolare dei panneggi gessosi dei suoi santi.
«L’importanza di Margaritone nell’autoracconto di quel primo itinerario italiano è simbolica forse ancor più che formale, ma proprio per questo tanto rivelatoria, scrive Virginia Magnaghi nel catalogo della mostra di Prato, che è in via di pubblicazione. Indugiare sui pittori che Volpi allora ammirò, infatti, non serve a compilare un repertorio di possibili fonti visive... sono un indizio per mettere meglio a fuoco lo sguardo del pittore, per rintracciarne il gusto. La parola rimanda a un libro che per il primo Novecento era stato dirompente e che Volpi, artigiano colto, lettore imbianchino, conosceva bene. Nel 1926 Il gusto dei primitivi di Lionello Venturi aveva raccontato come l’arte del Due e del Trecento rifuggisse il principio dell’imitazione della natura per poggiare invece su quello, più intuitivo e meno intellettuale, più mistico e meno consapevole, della rivelazione».
E la rivelazione per Volpi era evidentemente una sorta di grado quasi zero della pittura dove sperimenterà l’energia intrinseca dei colori e il controllo su di essi della forma, il tutto attraverso la variazione e ripetizione che dalle facciate bidimensionali arrivano a quei triangoli festosi che da una parte rimandano alle bandierine e alle ghirlande delle feste popolari, dall’altra annunciano già lo sviluppo del Neoconcretismo brasiliano. Grandi sperimentatori come Geraldo de Barros e Amilcar Di Castro lo considerarono un maestro al punto da frequentare il suo atelier per studiarne la pittura, anche se per Volpi quella tempera magra simile nella tecnica a una pittura a fresco che procedeva per velature e non concedeva pentimenti era più vicina ai pregiotteschi che alle conclusioni concettuali e geometriche degli artisti concreti.
La verità è che Volpi fu un pittore assoluto: tanto italiano quanto brasiliano; tanto popolare quanto sofisticato; tanto figlio dei primitivi quanto padre delle avanguardie. Un nome che ancora oggi sfugge a facili definizioni e alle griglie dei sussidiari, come succede sempre di fronte a uno di quei grandi artisti che sanno interpretare, reinventare e governare lo spirito del loro tempo.
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