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Pierluigi Masini
Leggi i suoi articoliIl nome, sconosciuto. L’oggetto, familiare. Di fronte allo spremiagrumi della Braun, in mostra sul tavolo numero 7, il visitatore sorride. Lo riconosce. Impara che quell’elettrodomestico degli anni Settanta, immediato da capire, «onesto» nelle forme, è stato progettato da Dieter Rams, designer di 91 anni, erede della tradizione tedesca del Bauhaus e della Scuola di Ulm.
All’Adi Design Museum sono esposti fino all’11 giugno i suoi progetti nella mostra «Dieter Rams. Uno sguardo al passato e al futuro», a cura di Klaus Klemp, mentre lui è rimasto nella casa di Francoforte vicino allo stabilimento della Braun, dove ha lavorato per 40 anni. Gli oggetti, disposti in ordine teutonico, con la loro essenzialità disarmante (rasoi elettrici, accendisigari, calcolatrici tascabili, proiettori, radiosveglie, ferri da stiro) raccontano un lessico domestico ancora molto attuale.
C’è tutto il rigore di Rams, l’impronta neofunzionalista che si traduce in tanto colore bianco, accenni di grigio, qualche tocco di rosso, blu, oro (ma solo se utile). C’è plastica e lamiera, tasti e manopole, quello che realmente serve e dove serve. L’ornamento resta un delitto. Tutto in coerenza con il suo motto «Less, but better», che migliora il «Less is more» di Ludwig Mies van der Rohe.
Principio applicato nel radio giradischi SK4 del 1956, il primo con coperchio in plexiglas, prodotto d’esordio alla Braun (con Hans Gugelot), e poi nel TP1, radio-mangiadischi del 1959, che vent’anni prima del Walkman della Sony consentiva di ascoltare la musica in movimento. Non si accenna (peccato) all’influsso che i progetti di Dieter Rams hanno avuto su Jonathan Ive, designer della Apple: per il primo Ipod, anno 2001, Ive si ispirò alla radio T3 di Dieter Rams di 43 anni prima. Oltre alla produzione Braun, ecco gli arredi disegnati per Vitsœ, il più famoso dei quali è la libreria componibile 606. In un pannello, il decalogo di Dieter Rams per il buon design, che parte dall’innovazione e arriva alla sostenibilità: siamo alla fine degli anni Settanta.
Indicazioni che trovano una sponda attuale nell’altra mostra in corso fino al 10 settembre all’Adi Design Museum, «Italy: A New Collective Landscape», a cura di Angela Rui, con Elisabetta Donati de Conti e Matilde Losi, che racconta la ricerca di 100 designer italiani under 35.
Riprendendo il titolo della celeberrima rassegna del MoMA di New York curata da Emilio Ambasz 51 anni fa, questa mostra segue le linee del design sistemico (che promuove modelli di sviluppo inclusivi, sostenibili e circolari); relazionale (il progettare come pratica sociale per favorire comunità) e rigenerativo (coniugando i bisogni della società e l’integrità della natura). E la domanda che Rui consegna al visitatore è: «Può la pratica del design avanzare proposte concrete per diventare uno strumento di transizione sociale, ecologica e politica, rendendo funzionanti visioni volte a progettare relazioni più gentili?».

Una veduta della mostra «Italy: A New Collective Landscape» all’Adi Design Museum. © Martina Bonetti