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Prima ancora di arrivare sul grande schermo, ogni film nasce sul cartellone, con una singola immagine che deve condensare un’intera pellicola, accompagnata da un titolo e poche righe di testo. Nati con il cinema, alla fine dell’Ottocento, quando in Francia i primi spettacoli dei fratelli Lumière e di Méliès cominciavano ad attrarre un pubblico tanto curioso quanto inesperto, i manifesti erano all’inizio semplici annunci testuali. Ma in pochi anni diventarono già qualcosa di diverso: un linguaggio visivo autonomo capace di interpretare il film prima che il pubblico lo vedesse. L’Art Nouveau offriva forme e colori adatti a tradurre l’incanto del nuovo mezzo e fu allora che artisti come Jules Chéret e Marcellin Auzolle, proprio per pubblicizzare un film dei fratelli Lumière, trasformarono un semplice avviso in un’immagine estetica, introducendo figure dinamiche, linee sinuose e scene narrative adatte a condensare essenza e atmosfera dell’intero spettacolo. Così il manifesto è arrivato ad anticipare il tono emotivo del film, a costruirne l’aspettativa e a renderlo riconoscibile attraverso una sintesi estrema che unisse grafica, pittura e spettacolo. Un passaggio dalla comunicazione alla rappresentazione che ha fatto del manifesto un’estensione del cinema stesso.È il luogo in cui il film si contrae prima di espandersi sullo schermo, dove la complessità narrativa si concentra in un varco visivo che invita lo spettatore a entrare nel suo universo. È in questa soglia che la locandina cinematografica si sviluppa come un genere a sé, mantenendo nel tempo una doppia natura: da un lato è uno strumento di comunicazione, pensato per informare, attirare e orientare il pubblico; dall’altro è un luogo di invenzione, dove l’immagine può sperimentare forme, stili e sintesi visive capaci di predisporre e innescare la magia della proiezione filmica: una stato di presogno, che comincia a prendere forma nella mente dello spettatore. È una soglia attraversata da stili, tecniche e immaginari sempre nuovi, che la mostra «Manifesti d’artista», al Museo Nazionale del Cinema - Mole Antonelliana, fino al 22 febbraio, rilegge in qualità di spazio autonomo in cui gli artisti, con grande libertà, hanno sperimentato possibilità grafiche altrove inesplorate. Il Museo Nazionale del Cinema di Torino custodisce una mastodontica collezione di questi fogli, alcuni dei quali non hanno mai lasciato gli archivi.
Vera D'Angara Manifesto per Al confine della morte di Toddi, Italia, 1922
Il percorso espositivo, curato da Nicoletta Pacini e Tamara Sillo, presenta 10 manifesti di grande formato dal muto al sonoro, più la brochure realizzata da Renato Guttuso per il lancio del film Riso Amaro di Giuseppe De Santis. «Per diversi decenni, se si escludono i grandi divi, i manifesti furono l’unico modo per attrarre il pubblico al cinema – sottolinea Enzo Ghigo, presidente del Museo Nazionale del Cinema – e il rivoluzionario fermento culturale dei primi anni del Novecento ha favorito questa commistione tra le arti. Era un nuovo modo di raccontare e raccontarsi, di entrare in contatto e di comunicare, di trovare nella trasversalità dell’esperienza artistica una nuova voce. Il nostro museo ha un considerevole numero di manifesti, quasi 540.000, molti rari e preziosi. Con questa mostra vogliamo dare, ancora una volta, risalto alla ricchezza delle nostre collezioni e all’unicità dei nostri materiali». È dunque la centralità dei manifesti nel sistema cinematografico a favorire il dialogo naturale tra arti visive e immaginario cinematografico, che la mostra presenta come parte integrante del cinema e della sua evoluzione. Ad aprire la mostra è un episodio singolare: Vera D’Angara, attrice, pittrice e illustratrice, che nel manifesto di Al confine della morte rappresenta se stessa con un tratto ancora vicino alla morbidezza Liberty ma già orientato verso la semplificazione déco. La sua biografia attraversa diversi mondi: l’infanzia in Siberia, sulle rive del fiume Angara da cui ricava il nome d’arte; la formazione parigina all’Académie des Beaux-Arts; la partecipazione ai circoli artistici russi; l’esperienza teatrale con la compagnia Pitoëff, fino all’arrivo in Italia, dove incontra Toddi e inizia a lavorare nel cinema come attrice e, talvolta, soggettista. Al confine della morte, uno dei film prodotti dalla coppia Selecta-Toddi, appartiene alla stagione delle pellicole mute in cui D’Angara interpreta ruoli melodrammatici costruiti intorno alla sua immagine di donna elegante e malinconica. Il manifesto non restituisce un episodio del film: ne ricrea il clima emotivo attraverso una figura sospesa, accarezzata da una pioggia di fiori e immersa in un paesaggio mosso dal vento, con il bordo superiore arrotondato a enfatizzarne l’armonia. L’assenza del titolo — prassi comune nel muto — accentua il carattere autonomo dell’immagine e rivela un’intenzione precisa: non illustrare, ma tradurre in forma la sensibilità dell’artista. In questo gesto emerge una consapevolezza rara: il film diventa un pretesto, il manifesto un luogo in cui D’Angara può concentrare tutto ciò che sullo schermo rimarrebbe implicito. La carta accoglie una versione più interna del personaggio, una sorta di autorappresentazione che non segue la narrazione ma la sua risonanza visiva.
Toddi Manifesto per Fu così che… di Toddi, Italia, 1922
Aleksandr Michajlovič Rodčenko Manifesto per Бронено́сец «Потёмкин» / Bronenosec Potëmkin / La corazzata Potëmkin di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, Unione Sovietica, 1925
Questa libertà emerge con ancora maggiore evidenza in Enrico Prampolini. La sua partecipazione al film Thaïs del 1917 come scenografo — ruolo decisivo, poiché è soprattutto grazie alle sue ambientazioni che la pellicola è considerata l’unico esempio sopravvissuto di cinema futurista italiano — gli permette di costruire un manifesto che non interpreta la trama, ma traduce in immagine i codici del movimento a cui appartiene. Thaïs, melodramma d’amore e amicizia con protagonista l’attrice russa Thaïs Galitzky, mette in scena una femme fatale in un mondo artificiale e visionario; Prampolini porta questo immaginario fuori dallo schermo, rielaborandolo sulla carta con la stessa logica che guidava la costruzione degli spazi filmici. La protagonista del manifesto è collocata in una composizione geometrica che ne assorbe quasi la figura: la poltrona su cui siede sembra inglobarla, trasformandola in un elemento del sistema visivo. Gli occhi truccati di nero rimandano a una delle scenografie più note del film, la stanza le cui pareti sono decorate con grandi occhi bistrati, e diventano un segno grafico che condensa l’atmosfera inquieta della pellicola. Se Prampolini porta nel manifesto il rigore dell’avanguardia, Toddi introduce una dimensione narrativa e insieme giocosa, segno di un percorso biografico che attraversa molteplici mondi. Diplomatico con un lungo rapporto con la cultura orientale, sinologo e docente universitario, giornalista e direttore di riviste illustrate, autore di uno dei primi libri di enigmistica, regista e produttore per una breve, ma intensa stagione, porta nel disegno dei manifesti una combinazione insolita di erudizione, gusto decorativo e spirito ironico. Lo stile Art Déco che adotta non è un’adesione formale, ma un metodo personale: linee pulite, figure semplificate, citazioni Liberty rielaborate con un controllo grafico che alterna eleganza e invenzione.
Enrico Baj Manifesto per Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, Italia, 1976
Fu così che…, commedia che racconta la lavorazione di un film e che rientra nella serie di pellicole prodotte dalla Selecta-Toddi, è un terreno perfetto per questa sensibilità. Il manifesto ideato da Toddi non riproduce una scena della storia: ne restituisce il meccanismo interno. La pellicola disegnata come nastro sinuoso che attraversa l’immagine funziona come metafora del cinema stesso, una linea che svela e nasconde, che unisce i personaggi e allo stesso tempo li separa. È un commento visivo sul processo cinematografico. Filiberto Scarpelli sposta il baricentro ancora una volta. Le sue composizioni per Il sogno di Don Chisciotte mostrano quanto la caricatura possa essere una forma di analisi: non semplifica, seleziona; non imita, mette in tensione. La sua grafica, nutrita dal lavoro giornalistico e dall’esperienza futurista, utilizza il colore come elemento strutturale, non decorativo. L’impatto non deriva dalla quantità di dettagli, ma dalla capacità di far collidere piani visivi e ritmi. Le sue immagini hanno la stessa energia delle sue vignette politiche, ma applicata al contesto cinematografico, dove il pubblico era abituato a figure più rassicuranti, l’effetto è quello di un’irruzione: il manifesto non introduce il film, ma dialoga con lui da un’altra angolazione. L’arrivo del Costruttivismo, con Rodčenko, segna un passaggio netto verso un uso più concettuale della forma. Il manifesto della Corazzata Potëmkin privilegia l’impatto diretto: la nave frontale, i cannoni orientati verso lo spettatore, la data del 1905, la frase «L’orgoglio della cinematografia sovietica». Tutto è ridotto all’essenziale, come se il linguaggio grafico dovesse rispecchiare il montaggio di Ejzenštejn, fondato sulla collisione di inquadrature e sull’attivazione intellettuale dello spettatore. È interessante notare come l’immagine, pur essendo funzionale alla promozione, mantenga una forza autonoma: non racconta la ribellione dei marinai, ne produce l’eco visiva.
Filiberto Scarpelli Manifesto per Il sogno di Don Chisciotte di Amleto Palermi, Italia, 1915 Raffigura, durante la I Guerra Mondiale, l’imperatore di Prussia e Germania Guglielmo II (nel film “Guglielmone”) tronfio con il mondo in mano.
Renato Guttuso Copertina della brochure per Riso amaro di Giuseppe De Santis, Italia, 1949 Cm 31x45,7
Renato Guttuso, negli anni del dopoguerra, porta il proprio linguaggio pittorico dentro l’immaginario di Riso amaro senza cedere alla tentazione documentaria. Le fotografie di Capa non lo convincono: preferisce costruire una scena mentale in cui Silvana Mangano incarna un’energia non solo erotica, ma sociale. I rossi, i gialli, i verdi non sono scelti per sedurre, ma per rendere percepibile la tensione del lavoro nelle risaie. Suo anche il manifesto di Kaos, film dei fratelli Taviani tratto da Novelle per un anno di Luigi Pirandello. Qui la sua relazione con il cinema cambia, ma non si attenua: i fichi d’India, il mare luminoso, il corvo ripreso a testa in giù diventano un modo per tradurre visivamente ciò che nel film dei Taviani è un tessuto narrativo fatto di novelle, di attese, di presagi. Infine Enrico Baj, chiamato da Rosi per Cadaveri eccellenti, costruisce un’immagine che non semplifica il film ma ne restituisce il clima: figure mostruose, maschere del potere, un generale pluridecorato che apre il corteo. La sua lunga riflessione sui generali e sulla rappresentazione del potere militare si innesta qui in un contesto che ne amplifica il senso. Il manifesto diventa parte del dispositivo critico del film, un contributo interpretativo. Così, senza cesure nette, la mostra compone un’idea di manifesto come luogo in cui il cinema viene continuamente filtrato e interrogato. La fragilità della carta, più delicata persino della pellicola, mette in evidenza quanto questi oggetti custodiscano immagini e modi di guardare. Ogni manifesto è un frammento di un discorso più ampio che lambisce l’evoluzione del linguaggio visivo e il rapporto con le forme della narrazione. «Con “Manifesti d’Artista” il piano zero della Mole Antonelliana si trasforma in una piccola, sorprendente, galleria d’arte – conclude Carlo Chatrian, direttore del Museo Nazionale del Cinema - Da un’intuizione delle conservatrici Nicoletta Pacini e Tamara Sillo è nata l’idea di esplorare le contaminazioni tra la cartellonista e l’arte pura. Se il manifesto nasce per promuovere la visione del film, in questi dieci gioielli, grazie alla visionarietà e creatività di artisti, esso si libera da quel legame e chiede di essere ammirato come opera a se stante. Nella bellezza e delicatezza del tratto, nella potenza della composizione, nell’esplosione die colori ma anche nella loro fragilità, essendo realizzati su una leggerissima carta che evidenzia più ancora della pellicola il passaggio del tempo».
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