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Foundations, Allison Katz con Edna Katz Silver, 03.10. – 29.11.2025, veduta dell'installazione, Gió Marconi, Milano

Courtesy: the artist; Gió Marconi, Milan. Foto: Fabio Mantegna

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Foundations, Allison Katz con Edna Katz Silver, 03.10. – 29.11.2025, veduta dell'installazione, Gió Marconi, Milano

Courtesy: the artist; Gió Marconi, Milan. Foto: Fabio Mantegna

Allison Katz: «Una mostra è il luogo in cui tutto può rischiare di incontrarsi»

L’artista racconta la genesi di «Foundations», in mostra da Gió Marconi: un progetto costruito su autobiografia, memoria e collaborazione familiare

Da oltre un decennio, Allison Katz esplora la pittura come un linguaggio vivo e in continua trasformazione, capace di assorbire autobiografia, storia dell’arte e stimoli visivi contemporanei. Nata a Montréal e oggi attiva a Londra, ha sviluppato una pratica che si muove con naturalezza tra tecniche e formati diversi, mettendo in discussione la natura stessa dell’immagine, il suo peso simbolico e le modalità della sua circolazione. La sua opera bilancia ironia e profondità, rigore e gioco, trasformando ogni mostra in un dispositivo relazionale più che in una semplice sequenza di lavori. Negli ultimi anni, i suoi dipinti sono stati presentati in importanti istituzioni internazionali, tra cui il Camden Art Centre di Londra e la 59ª Biennale di Venezia (The Milk of Dreams, 2022).

L’abbiamo incontrata a Milano, in occasione della sua nuova personale Foundations, da Gió Marconi (in corso fino al 19 dicembre 2025), per approfondire una pratica che, solo in apparenza sfuggente e sfaccettata, rivela a uno sguardo attento la coerenza circolare di un’indagine paziente e lunga una vita.

Ogni opera nasce da un fragile momento di possibilità, quando l’immagine inizia a prendere forma sulla tela. Cosa vedremmo entrando nel suo studio londinese in quell’istante?
Il processo cambia da un dipinto all’altro, ma in genere applico decine di strati di colore per costruire intensità. È un processo lungo e meditativo, spesso guidato però da decisioni improvvise. Tendo a seguire l’intuizione — ciò che de Kooning chiamava “un lampo” — e quando il desiderio di far apparire qualcosa si trasforma in gesto pittorico, mi affido a quel senso di curiosità ed eccitazione. La pittura, per me, è sempre una tensione tra sicurezza e dubbio, serietà e gioco: non finisco mai un lavoro senza aver prima attraversato quel conflitto.

Nei suoi dipinti compaiono spesso materiali come sabbia o riso, che introducono una dimensione tattile e quasi alchemica. Come si è formato nel tempo questo vocabolario materico?
È nato dal desiderio di rompere la levigatezza dell’olio. Una superficie irregolare costringe l’immagine a confrontarsi con una sorta di verità. Sia la sabbia sia il riso sono unità di tempo e misura: minuscole, concrete, eppure infinite. Quando si fondono con la pittura, impongono un realismo che appare più reale di qualsiasi rappresentazione.
Forse deriva anche dal modo in cui ho scoperto la pittura da studentessa: inizialmente le immagini mi arrivavano attraverso libri e riviste, quando finalmente ho visto le prime opere dal vivo, le superfici rivelavano un linguaggio segreto fatto di tracce e residui — qualcosa di impossibile da riprodurre. Nell’era degli schermi, quella fisicità appare ancora più misteriosa e necessaria.

Eppure, anche la fotografia sembra avere un ruolo centrale nel suo lavoro: rifrazioni di luce, sovrapposizioni, immagini moltiplicate…
Tutta la pittura dialoga con la fotografia, perché ogni opera passa inevitabilmente attraverso una lente. Mi interessa proprio quel passaggio — la distorsione, la perdita o il guadagno che comporta. È nello spazio tra esperienza e desiderio di fissarla che trovo indizi su cosa e come dipingere.
Lavoro con varie fonti — foto analogiche, scatti iPhone, immagini stampate — e mi piace confrontarne le versioni, dal monitor alla pagina. Il riferimento fotografico ritorna poi come un fantasma pittorico. Non parto solo dalle fotografie, ma anche da testi o osservazioni dirette: ogni dipinto richiede un approccio diverso e non mappabile.

Foundations, Allison Katz con Edna Katz Silver, 03.10. – 29.11.2025, veduta dell'installazione, Gió Marconi, Milano. Courtesy: the artist; Gió Marconi, Milan. Foto: Fabio Mantegna

L’eterogeneità delle fonti e delle ispirazioni è una costante nel suo lavoro. Motivi come galli, cavoli e bocche ritornano, componendo un bestiario insieme intimo e universale.
Il vocabolario artistico è qualcosa che si rigenera continuamente. Ogni artista torna ossessivamente ai propri segni, come se l’inconscio continuasse a fare domande. Sono attratta da forme sul limite del cliché, proprio perché svuotate di significato: posso riempirle con il mio senso, come se riscrivessi il mondo.
Animali, piante o corpi portano già un peso simbolico, ma l’unico modo per farli davvero parlare è abitarli attraverso l’esperienza personale, senza dare nulla per scontato.

Tutti questi elementi — materia, immagine, simbolo — sembrano convergere nella sua nuova mostra milanese Foundations da Gió Marconi. Come è nato il progetto?
All’inizio non riuscivo a immaginarlo nella sua totalità. Per molto tempo ho lavorato su singoli componenti — il desiderio di articolare una narrazione sulle storie d’origine, su come arriviamo ai nostri gusti, e su cosa significhi lavorare con storie preesistenti per smontare il mito della mostra “solitaria” — usando il formato espositivo come il momento in cui rischiare che tutto si componga. Ho attraversato molte versioni prima di arrivare a questa.
Sapevo di voler includere le opere di mia nonna, Edna Katz Silver, perché collaboriamo da circa un decennio, ma non sapevo ancora come. Ho lavorato con mia cugina, l’architetta Caitlin Tobias Kenessey — mia collaboratrice da molti anni — sul progetto espositivo, perché la conformazione della galleria presenta sfide precise.
Ho coinvolto anche il curatore Yuval Etgar come interlocutore e partner nell’immaginare come integrare vari artisti; a un certo punto volevo includere opere della Fondazione Marconi. Alla fine abbiamo semplificato la scelta presentando per la prima volta una selezione di foulard dall’archivio Bellotti, l’azienda tessile fondata dai nonni materni di Gió Marconi.
Per me una mostra è sempre una contraddizione temporale. La progetto mentre dipingo, ma a volte la ignoro quando lavoro in studio. Oscillare tra queste due posizioni mi aiuta a far emergere il meglio da ciascuna. L’invito è il momento in cui mi apro e mi inondo di idee, e la mostra finisce davvero solo la sera dell’inaugurazione, quando sono costretta a smettere di lavorarci.

Anche la messa in discussione del mito dell’artista come “genio solitario” è sempre stata parte della sua pratica. In questo senso, la collaborazione con sua nonna è uno dei fulcri della mostra. Come è iniziata, e come si è evoluta fino a AK (Conception) (2025), l’ultimo lavoro realizzato insieme?
È iniziata per caso, quando ho ritrovato due sue opere ricamate negli anni Settanta — libere, vibranti, completamente fuori dai canoni del genere. Mi parlavano di resistenza e fragilità. Da lì, le ho chiesto di tradurre la mia firma in ricamo — un gesto rapido che lei ha trasformato in mesi di lavoro. Mi affascinava quel contrasto di ritmo, e l’idea della firma che diventava soggetto anziché sigillo. Poi Edna ha ridotto la firma alle iniziali “A” e “K”, nascondendole nelle sue composizioni, arricchite di materiali e forme legati al suo linguaggio visivo. Per lei, ago e filo sono un ritorno alle origini — il mestiere di suo padre, l’infanzia, la sopravvivenza stessa.
AK (Conception), completato nel 2024, è il suo lavoro più grande e complesso: nove mesi di lavoro, un intreccio di amore e anatomia, che lei ha definito il suo “canto del cigno” (anche se ne ha già iniziato un altro).

La condivisione di un processo creativo porta con sé altre domande, come il ruolo di quella che potremmo definire “autofiction”.
Mi piace la parola “autofiction”, che può suonare anche come “automatic fiction”: quel bisogno di credere nelle proprie storie, pur sapendo che non saranno mai del tutto vere. Indago sempre le maschere che indosso — e mi è stato fatto il dono che le mie iniziali lo dicano esplicitamente: MASK (Ms. Allison Sarah Katz).
Con mia nonna il rapporto è paritario: ci incontriamo sul terreno dell’arte. Anche a novantasei anni è indipendente, vive da sola, e spesso ci vediamo in videochiamata per mostrarci i nostri lavori. È riuscita persino a venire a Milano per l’inaugurazione, e per lei è stato un momento di compimento. Mi ha detto: “Ho aspettato una vita per questo.” Si riferiva non solo all’esporre per la prima volta in Italia, ma al farlo con me, nel modo in cui la mostra inquadra il nostro dialogo come un confronto tra artiste, e non solo tra parenti. È qui che i fatti della vita vengono assorbiti nei fatti dell’arte, dove finzione e immaginazione superano i termini abituali del rapporto.

Foundations, Allison Katz con Edna Katz Silver, 03.10. – 29.11.2025, veduta dell'installazione, Gió Marconi, Milano. Courtesy: the artist; Gió Marconi, Milan. Foto: Fabio Mantegna

Edna le ha parlato anche di un altro sogno — quello di diventare attrice — realizzato simbolicamente nel manifesto esposto nel cortile.
Sì, quella storia ha ispirato l’immagine esterna: un ritratto di mia nonna nel suo letto, scattato tre anni fa (su mia richiesta) dal suo vicino, un ragazzo adolescente immigrato da poco in Canada, con cui aveva stretto amicizia. È una scena teatrale della sua vita, e quando ha visto la foto installata, è rimasta senza parole. In quel momento ho capito come un ritratto pubblico possa restituire a una persona un senso di presenza e libertà.

Ha citato anche la decisione di esporre una selezione di foulard dall’archivio Bellotti, l’azienda tessile fondata dai nonni materni di Gió Marconi. In Foundations, la storia delle sue radici si intreccia inaspettatamente con quella della galleria, dando origine a opere come Titular Suite 1–12 (2025).
Era proprio ciò che volevo mettere in luce: come la storia personale e quella di uno spazio possano intrecciarsi. Da qui il titolo Foundations: volevo partire da ciò che sostiene entrambe.
In questo caso era particolarmente significativo, dato che la galleria condivide l’edificio con la Fondazione Marconi, e mia nonna Edna è nata lo stesso anno di Giorgio Marconi.
Quando Gió mi ha mostrato un libro sull’azienda tessile Bellotti, fondata dai suoi nonni materni — mentre suo padre lavorava prima come corniciaio e poi come gallerista, come fa lui oggi — ho provato un senso di riconoscimento. Era come se vedessi riflessa la mia idea del rapporto tra pittura, cornice e tessitura. Questo continuo intreccio di sincronicità e memorie è ciò che alimenta la mia pratica.

A un primo sguardo, la mostra può disorientare, con la sua eterogeneità e i riferimenti stratificati — sembra quasi una mostra collettiva più che una personale. Ma seguendo connessioni e storie emerge un forte senso di circolarità. Penso ad Arabesque, il dipinto con il pattinatore.
Il dipinto ritrae mio nonno, l’ex marito di Edna. Durante il lockdown del 2020 l’ho chiamato dopo anni di silenzio, e poco dopo mi ha inviato quella foto: lui sul ghiaccio a ottantasette anni, visto da dietro, le braccia aperte come ali. Mi è sembrato un autoritratto perfetto, un gesto insieme di libertà e malinconia. Ho aspettato il momento giusto per dipingerlo: un’immagine sospesa tra memoria e possibilità di redenzione.

Descrivendo Foundations, parla di una mostra che in qualche modo è “successa” da sola. Da questa prospettiva, si potrebbe pensare all’arte come a un mezzo che permette di cogliere ciò che di sottile e quasi magico accade sotto i nostri occhi senza che ce ne accorgiamo. Vede il ruolo dell’artista come quello di accompagnare questi processi?
Sì, è un ottimo modo per descrivere il ruolo dell’artista!
Non credo di essere la persona più adatta a definire cosa faccia un artista, ma basti dire che il naso è uno dei miei motivi preferiti.

Giorgia Aprosio, 27 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

Allison Katz: «Una mostra è il luogo in cui tutto può rischiare di incontrarsi» | Giorgia Aprosio

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