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Anche Topolino sbarca su ChatGPT: accordo da 1 miliardo di dollari tra Disney e OpenAI

L’intesa tra The Walt Disney Company e OpenAI, la società che sviluppa ChatGPT e Sora, porta i personaggi del gruppo – da Disney a Pixar, Marvel e Star Wars – all’interno di ambienti di creazione generativa autorizzati: un passaggio strategico nella governance dell’intelligenza artificiale applicata alla produzione culturale e alla gestione degli immaginari

Jenny Dogliani

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Con l’accordo da 1 miliardo di dollari annunciato nelle ultime ore tra The Walt Disney Company e OpenAI, l’intelligenza artificiale compie un passaggio che va oltre la sperimentazione tecnologica per toccare il cuore dell’industria culturale contemporanea: la gestione degli immaginari, delle proprietà intellettuali e dei mondi narrativi condivisi. La collaborazione, che porterà i personaggi Disney, Pixar, Marvel e Star Wars all’interno di Sora, il modello di generazione video sviluppato da OpenAI, rappresenta uno dei primi casi in cui un grande conglomerato dell’intrattenimento sceglie di licenziare in modo strutturato il proprio patrimonio simbolico a una piattaforma di intelligenza artificiale generativa. Non si tratta solo di un accordo commerciale, ma di una presa di posizione strategica in un momento cruciale per il settore creativo, attraversato da tensioni su copyright, diritti d’autore, uso dei dati e ridefinizione dei ruoli tra creatori, pubblico e tecnologia. In questo senso, l’operazione Disney–OpenAI va letta come un intervento consapevole sulla governance culturale dell’AI, più che come una semplice alleanza industriale. Sora nasce come strumento di generazione video a partire da prompt testuali, ma l’accordo con Disney ne ridefinisce implicitamente la natura: da tecnologia a spazio di produzione culturale regolato. Per la prima volta, personaggi iconici — da Topolino agli eroi Marvel, fino alle saghe di Star Wars — entrano in un ambiente di creazione generativa con un perimetro giuridico e creativo chiaramente definito. Gli utenti potranno generare brevi clip e contenuti visivi utilizzando asset ufficiali, ambientazioni e personaggi, ma all’interno di un quadro che esclude elementi sensibili come le sembianze o le voci degli attori reali. È una distinzione tutt’altro che marginale: Disney non cede il controllo dei propri mondi, ma ne consente una riattivazione controllata, una forma di creatività partecipata che rielabora la logica della fan art alla luce dell’intelligenza artificiale. Sora diventa così una sorta di laboratorio narrativo, dove la tecnologia non agisce in autonomia, ma si innesta su sistemi di valori, regole e identità già fortemente codificate.
Storicamente, Disney è uno dei gruppi più rigorosi nella tutela della proprietà intellettuale. La scelta di collaborare con OpenAI va quindi interpretata non come una concessione, ma come una mossa profondamente strategica. In un’epoca in cui i contenuti generati dall’intelligenza artificiale spesso si muovono in una zona grigia, Disney sceglie la strada opposta: collaborazione, licenza, investimento diretto. L’ingresso del gruppo nel capitale di OpenAI — con un investimento stimato intorno al miliardo di dollari — rafforza ulteriormente il significato dell’operazione. Non si tratta solo di garantire accesso privilegiato a una tecnologia emergente, ma di presidiare dall’interno uno dei luoghi in cui si stanno ridefinendo le forme future dello storytelling, della creatività e del valore culturale. In questa prospettiva, Disney riafferma il proprio ruolo non solo come produttore di contenuti, ma come architetto di ecosistemi narrativi, capace di adattarsi alle trasformazioni tecnologiche senza rinunciare alla propria identità.

Per Disney, che ha costruito il proprio impero sulla capacità di raccontare storie attraverso media diversi — cinema, televisione, parchi tematici, piattaforme streaming — Sora rappresenta un’estensione coerente ma radicale: non più solo narrazione lineare, ma narrazione generativa, modulabile, personalizzabile, partecipata. Il punto non è che l’utente «crei un contenuto Disney», quanto piuttosto che entri in relazione attiva con un universo narrativo. È un passaggio culturale profondo: il pubblico non è più solo spettatore o fan, ma diventa co-produttore simbolico, pur all’interno di limiti e regole definiti dall’azienda. Questo spostamento apre interrogativi che riguardano non solo l’industria dell’intrattenimento, ma l’intero campo della produzione culturale contemporanea. Da anni artisti, curatori e istituzioni interrogano il ruolo dell’AI come strumento creativo, mettendo in discussione concetti tradizionali di autorialità, originalità e processo. Sora, soprattutto nella sua versione «licenziata», introduce una variabile ulteriore: l’opera non nasce più solo dall’artista o dall’algoritmo, ma da un sistema di vincoli, archivi e immaginari preesistenti. In questo senso, l’AI non sostituisce l’autore, ma ne ridefinisce la posizione, avvicinandola a quella del curatore o del regista: chi scrive il prompt agisce per selezione, combinazione, montaggio. Una dinamica che richiama pratiche consolidate dell’arte contemporanea — dall’appropriazione alla post-produzione — ma che ora si estende a un pubblico di massa. Disney, mettendo a disposizione i propri personaggi, rende esplicito un punto cruciale: l’intelligenza artificiale diventa uno strumento di mediazione culturale, non un soggetto autonomo. E l’immaginario pop entra, a pieno titolo, nel territorio della produzione generativa. Il valore dell’accordo emerge con ancora maggiore chiarezza se inserito nel contesto più ampio delle tensioni tra industria creativa e AI. Negli ultimi anni, studi cinematografici, artisti e sindacati hanno espresso forti preoccupazioni sull’uso non autorizzato di opere protette per l’addestramento dei modelli generativi. Disney, invece di opporsi frontalmente, sceglie di costruire un precedente regolato. Questo approccio potrebbe diventare un modello anche per altri settori culturali — dall’editoria alla musica, dal design alla moda — mostrando come sia possibile integrare l’AI nei processi creativi senza rinunciare alla tutela del valore e dei diritti. L’operazione Disney–OpenAI è emblematica di una trasformazione più ampia: le grandi aziende culturali non si limitano più a utilizzare la tecnologia, ma partecipano attivamente alla sua definizione. Investire in OpenAI significa contribuire a orientarne sviluppo, policy e limiti, assumendo un ruolo nella governance dell’innovazione.

Sora, in questo quadro, non è solo uno strumento creativo, ma un luogo in cui si negoziano nuove relazioni tra creatività, mercato, diritti e partecipazione. La presenza di un attore come Disney introduce standard, responsabilità e una visione industriale che mira a rendere sostenibile l’uso dell’AI nel lungo periodo. l’accordo non si esaurisce nella licenza dei personaggi né nell’investimento finanziario, ma configura Disney come cliente strategico di OpenAI. Il gruppo utilizzerà infatti le tecnologie di OpenAI – dalle API ai modelli generativi – anche per processi interni, sviluppo di nuovi prodotti digitali ed esperienze integrate, segnando un passaggio rilevante: l’intelligenza artificiale non è solo uno strumento creativo esterno, ma entra nell’architettura operativa di una grande impresa culturale globale. A questo si aggiunge la possibilità, prevista dall’intesa, di incrementare in futuro la partecipazione azionaria in OpenAI, rafforzando una relazione di lungo periodo che va oltre la sperimentazione. In questa prospettiva, Disney non si limita a “usare” l’AI, ma contribuisce a plasmarne l’evoluzione come infrastruttura tecnologica, industriale e culturale, anticipando un modello di integrazione che potrebbe diventare riferimento per l’intero sistema delle industrie creative. Se il Novecento è stato il secolo della riproducibilità tecnica e il primo ventunesimo secolo quello della circolazione digitale, questa partnership sembra inaugurare una terza fase: quella della manipolabilità generativa degli immaginari. I personaggi non sono più solo da guardare, ma da attivare, rimescolare, far vivere in micro-narrazioni personalizzate. Resta aperta la domanda più ampia: fino a che punto questa democratizzazione creativa arricchirà il patrimonio culturale collettivo e fino a che punto rischierà di appiattirlo?

 

Jenny Dogliani, 17 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

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