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Luca Fiore
Leggi i suoi articoli«Un caleidoscopio in continua mutazione. Come un cubo di Rubik, colto un attimo prima di essere risolto». Questa è la Cina nelle immagini di Olivo Barbieri secondo Corrado Benigni, curatore di «Spazi altri», la mostra dell’artista di Carpi nella sede di Torino delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo. Con oltre 150 opere, il percorso copre i trent’anni di lavoro realizzato da Barbieri nella Repubblica Popolare Cinese dal 1989 al 2019. Un corpus di immagini meticoloso e testardo, che per la prima volta viene esposto nel suo complesso. Quasi un desiderio di ricapitolare un’esplorazione iniziata quando in pochi avrebbero immaginato che il ventunesimo si sarebbe rivelato «il secolo cinese». Ma Barbieri non è un analista politico né un sociologo. È un maestro del linguaggio fotografico che, con il proprio alfabeto e la propria sintassi, riesce a mostrarci ciò che altri metodi non riescono a esprimere. E quello di Torino è il racconto di un’avventura che è artistica e umana insieme.
Che cosa l’ha portata in Cina già alla fine degli anni Ottanta?
Avevo intuito che lì sarebbe accaduto qualcosa di straordinario. Era una terra sconosciuta. Era lì che avrei potuto fare qualcosa con un impatto e una portata paragonabili a The Americans di Robert Frank. Sono tornato tante volte, sempre per iniziativa personale, non su commissione. Era un periodo in cui molti ritenevano che il Paese fosse destinato all’implosione. Nel 1989, quando sono arrivato per la prima volta, Shanghai aveva un solo grattacielo, mentre oggi ne ha oltre 1.500. Ho visto un cambiamento radicale che l’Occidente faticava e fatica a comprendere. La cosa che mi ha affascinato di più negli anni è che, nel bene e nel male, lì si è sperimentato velocemente e massicciamente un nuovo modo di vivere sulla terra, un modo diverso di concepire i rapporti sociali e spirituali tra le persone.
Da dove nasce la difficoltà di comprendere?
Forse perché noi occidentali pensiamo di aver codificato lo stare al mondo nel migliore dei modi. In Cina capii che questo non è vero. Ci sono altri modi e non sono per forza soltanto peggiori.
I suoi lavori spesso mostrano il contrasto tra passato e presente.
Una delle opere emblematiche, siamo nel 2001, forse è quella del polittico in sei parti, di un vecchio quartiere di Shanghai, con edifici bassi e piccoli negozi in primo piano, mentre sullo sfondo, nella nebbia azzurrina, si stagliano grattacieli futuribili. È come una stratigrafia visiva del cambiamento: da una parte le case degli anni Sessanta, dall’altra l’urbanizzazione che avanza, destinata a inghiottire tutto. L’energia è tanta e nessuno sembra soffrire di nostalgia per il passato.
Ed è capitato tutto con una velocità impressionante.
A Shanghai c’era un ristorante in cui mi piaceva andare. Sono tornato dopo due mesi e non solo non c’era più, ma non esisteva neppure la strada dove si trovava. Oppure una mia amica abitava in un palazzo dove ero andato a trovarla. Poco dopo l’edificio era stato abbattuto e al suo posto c’era quel groviglio di strade che è lo svincolo della tangenziale di cui ho realizzato un polittico in dieci immagini. È un sistema di rampe costruito attorno a una colonna su cui un geomante, che è un misuratore filosofico dello spazio, aveva consigliato di rappresentare un dragone perché avrebbe riequilibrato le energie degli spiriti. Mi colpiva la convivenza straordinaria tra la tangenziale avveniristica e la fiducia nel consiglio proveniente dalla cultura tradizionale.

Olivo Barbieri, «Greeting Pine, Huangshan, Anhui, China 2018». © Olivo Barbieri
Altro tema presente in mostra è quello della demolizione. Perché?
Una volta mi è capitato di incontrare Yu Hua, uno scrittore della nuova generazione, che era ossessionato dalla polvere che saliva dall’enorme cantiere che era diventato la Cina. Ho fotografato la demolizione di una palazzina azzerata con un metodo quasi ottocentesco: invece di usare esplosioni controllate, un gruppo di operai stava letteralmente tirando giù l’edificio con corde e mezzi meccanici rudimentali. Era un’immagine potente perché rappresentava quella fase intermedia tra un passato di città costruite con forza lavoro manuale e un futuro di demolizioni ipertecnologiche, dove oggi bastano pochi secondi per abbattere un intero quartiere.
Perché, invece, la fotografia della statua della madre che insegna a nuotare al figlio?
Nel progetto «Paesaggi in miniatura» del 1990, c’è un’immagine simile: un padre che aiuta il figlio a superare degli ostacoli tra le rovine della Città Proibita. Qui, invece, nel 2019, ho voluto mostrare il passaggio di conoscenza da una generazione all’altra. Mi piaceva ritrovare, in modo differente, alcuni temi trattati trent’anni prima. Mi affascinava anche il contesto in cui la scena avveniva: una scultura che riprende la tradizione statuaria sovietica, risalente agli anni in cui Russia e Cina erano amiche.
E il «Greeting Pine» di Huangshan? Perché ha attratto la sua attenzione?
Il pino del «benvenuto» è un’icona della cultura classica cinese. Nei primi viaggi lo fotografavo nei dipinti vernacoli esposti nei ristoranti o nelle abitazioni, mentre nel 2018 sono andato di persona a vedere il vero pino millenario su una montagna sacra.
Che cosa ha notato nella grande statua del Buddha di Taiyuan?
Durante la Rivoluzione culturale quasi tutte le statue buddhiste furono decapitate. Questa, in particolare, è stata restaurata, ma in modo curioso: il corpo è rimasto antico, con vegetazione che cresce tra le crepe, mentre la testa è stata rifatta di recente, come nuova. È un’immagine che sintetizza il rapporto della Cina con la propria storia: distruzione, oblio, poi ricostruzione, ma sempre con una logica più pragmatica che nostalgica.
A un certo punto della sua carriera ha iniziato a usare tecniche di riprese particolari come il fuoco selettivo e l’alterazione dei colori. Perché questa scelta?
Ho sempre rifiutato l’idea che la fotografia sia una mera riproduzione della realtà. Con il fuoco selettivo ho cercato di rendere il fatto che esiste una «messa a fuoco psicologica», noi mettiamo più attenzione nel guardare ciò che crediamo di conoscere o riconoscere, mentre il resto rimane «fuori fuoco». In altri casi frappongo negativo e positivo nella stessa immagine per creare una sensazione tridimensionale inaspettata, che sfida la percezione dello spettatore. Spesso si pensa che vediamo tutti allo stesso modo, ma non è affatto detto che sia così. La veridicità delle immagini è solo nelle immagini.