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Chiara Coronelli
Leggi i suoi articoliVerona. È l’estate del 1970 quando, ventiquattrenne, Gabriele Basilico parte da Caorle, su una Fiat 124, diretto a Oriente, lungo un percorso che allora per molti rappresentava una sorta di rito iniziatico. Viaggia con alcuni amici, tra i quali la compagna Giovanna Calvenzi, con l’intenzione di mettere insieme un reportage sulla Cappadocia, da vendere a qualche giornale italiano. Vorrebbero arrivare a Kabul, ma poco prima di Teheran un problema meccanico li costringe verso sud, a Isfahan, Persepoli, Shiraz, e poi al rientro. Le fotografie che scatta tra Jugoslavia, Turchia e Iran, e che poi stampa nella sua camera oscura, finiscono però nel suo archivio per uscirne solo quarantacinque anni dopo, quando nel 2015 vengono pubblicate nel piccolo volume Iran. 1970, di Humboldt Books.
Una selezione di queste immagini è esposta fino al 7 maggio nello spazio Studio La Città, in una mostra intitolata «Iran 1970. Basilico prima di Basilico», secondo una definizione dello scrittore Luca Doninelli. È inevitabile cercare nelle inquadrature una traccia che anticipi l’occhio geometrico che poi scandaglierà architetture e sviluppi urbani, quello che un decennio più tardi porterà alla realizzazione di Milano. Ritratti di fabbriche, che consacra e definisce la fotografia di Basilico. Ma per quanto distanti possando sembrare, in questi lavori già si intravede la ricerca di «un senso possibile del luogo», così come quel «lavorare sulla distanza» che fa decantare la realtà in prospettive dove il dialogo tra la figura umana e lo sfondo, cerca già di «riordinare lo spazio».
Dei profili lucidi e silenziosi di quelle che siamo abituati a riconoscere come le sue città, c’è fin d’ora il linguaggio chiaro della misura e dell’intensità, come la sincera apertura dello sguardo sul mondo.

Gabriele Basilico, Iran, 1970

Gabriele Basilico, Iran, 1970, Qom

Gabriele Basilico, Iran, 1970

Gabriele Basilico, Iran, 1970

Iran 1970, foto di Giovanna Calvenzi
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