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EX., «Bivacco Aldo Frattini», Alpi Orobie

Courtesy Gamec-Galleria d’Arte Moderna e Conte mporanea di Bergamo. Photo @Tomaso Clavarino

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EX., «Bivacco Aldo Frattini», Alpi Orobie

Courtesy Gamec-Galleria d’Arte Moderna e Conte mporanea di Bergamo. Photo @Tomaso Clavarino

Bivacco Aldo Frattini: un inno all’abitare minimo, alla sottrazione come forma di design

Nel cuore dell’Alta Via delle Alpi Orobie, il laboratorio EX. ha firmato un esperimento di architettura, un piccolo manifesto sul futuro dell’abitare in alta quota

Germano D’Acquisto

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Sulle Orobie bergamasche è atterrato qualcosa che assomiglia più a una capsula lunare che a un rifugio alpino. Si chiama Bivacco Aldo Frattini. Non è il solito ricovero per escursionisti infreddoliti: è un esperimento di architettura, un gesto di design e un piccolo manifesto sul futuro dell’abitare in alta quota. A firmarlo è EX., il laboratorio fondato da Andrea Cassi e Michele Versaci, che da anni studia i limiti tra arte, paesaggio e tecnologia sostenibile.

Il progetto nasce da una collaborazione altrettanto inusuale: GAMeC-Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e CAI Bergamo, all’interno del programma «Pensare come una montagna», il Biennale delle Orobie ideata da Lorenzo Giusti. Un titolo che è già tutto un programma: pensare come una montagna significa misurarsi con lentezza, equilibrio, resistenza. Significa, nel caso del Bivacco Frattini, immaginare una nuova idea di rifugio che non imponga la propria presenza al paesaggio, ma ne diventi parte, quasi una sua estensione sensibile.

Il risultato è un oggetto compatto (3,75x2,60x2,60 metri, meno di 2.500 chili), che sembra fluttuare tra roccia e cielo. La struttura è rivestita da una pelle tessile sviluppata con Ferrino, storica azienda italiana dell’outdoor, e rappresenta la prima architettura tessile d’emergenza permanente in ambiente alpino. Un prototipo, sì, ma anche un simbolo: l’idea che la leggerezza possa essere la nuova forma della solidità. Il suo profilo svasato richiama la tenda alpina, con due piccoli oblò panoramici e un lucernario che lascia entrare la luce come una lama liquida. Non ha nulla della retorica rustica dei rifugi tradizionali: niente legno a vista, niente pietra, ma una linea pura, quasi zen, che parla di ingegneria e meditazione in egual misura.

All’interno, il rivestimento in sughero naturale isola acusticamente e termicamente, regalando una sensazione di quiete quasi sacrale. Il profumo del materiale, il silenzio ovattato, la luce diffusa costruiscono uno spazio che è più contemplazione che riparo. Le panche perimetrali seguono la curvatura della scocca, i letti pieghevoli si trasformano in barelle d’emergenza, e tutto è pensato per un’economia assoluta del gesto. Nove persone possono trovarvi posto, ma il vero lusso è la misura. È un piccolo inno all’abitare minimo, alla sottrazione come forma di design.

Cassi e Versaci citano come riferimento Shelter (1973) di Lloyd Kahn e Bob Easton, un manuale seminale che celebrava l’architettura leggera, autocostruita, nomade. Lì si trovavano cupole geodetiche, capanne di fango, tende e yurta: una visione romantica e radicale del costruire come atto poetico. Il Bivacco Frattini ne raccoglie l’eredità e la porta oltre i 2mila metri, nel cuore dell’Alta Via delle Orobie. È un ritorno all’essenziale, ma in chiave high-tech: la tradizione artigianale si ibrida con la ricerca, l’autosufficienza diventa sostenibilità.

C’è poi un altro aspetto, meno evidente ma cruciale: il bivacco è anche un avamposto scientifico. Dotato di sensori ambientali, raccoglie dati sul microclima e sugli ecosistemi alpini, inviandoli direttamente alla GAMeC, che li riceverà nel cuore di Bergamo. È come se la montagna parlasse al museo, e viceversa. Un circuito tra arte e natura, dati e poesia, che ridefinisce il ruolo stesso del museo: non più solo custode di opere, ma organismo vivo, con una sua appendice a 2.300 metri d’altitudine.

In questo senso, il Bivacco Frattini non è solo architettura: è una narrazione di coabitazione tra umano e ambiente, tra design e sopravvivenza. Non pretende di addomesticare la montagna, ma di ascoltarla. Ogni sua componente, dal modulo tessile alla modularità interna, sembra progettata per dialogare con il clima, il vento, la luce. È il contrario dell’ostentazione, un’architettura che lavora per sottrazione e trasparenza, e che proprio per questo conquista.

Guardandolo da lontano, spicca come un punto rosso tra il bianco della neve e il grigio delle rocce. Un segnale, certo, ma anche una dichiarazione estetica: la montagna come spazio d’arte, il rifugio come opera di design. E chissà che un giorno, tra i bivacchi futuristi che punteggiano le Alpi, non si parli del Frattini come di un piccolo manifesto di un nuovo modo di costruire: leggero, reversibile, quasi invisibile.

Perché se l’architettura del futuro dovrà davvero imparare a «pensare come una montagna», allora questo bivacco, sospeso tra arte e scienza, rifugio e installazione, è un buon punto di partenza. Una scultura abitabile nel cuore delle Orobie, dove il design incontra la neve, e la tecnologia si fa contemplazione.

Germano D’Acquisto, 21 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

Bivacco Aldo Frattini: un inno all’abitare minimo, alla sottrazione come forma di design | Germano D’Acquisto

Bivacco Aldo Frattini: un inno all’abitare minimo, alla sottrazione come forma di design | Germano D’Acquisto