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Guanyu Xu, dal progetto «Resident Aliens»

Courtesy l’artista e gdm, Hong Kong e Yancey Richardson Gallery, New York

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Guanyu Xu, dal progetto «Resident Aliens»

Courtesy l’artista e gdm, Hong Kong e Yancey Richardson Gallery, New York

Che cosa vogliono i «giovani» fotografi

Desiderata e criticità del settore raccontate da dieci voci under 35: è rincuorante notare come le voci siano allineate verso una concezione seria e professionale, che trascende i trend di mercato e le mode passeggere

Rica Cerbarano

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Hanno tra i 28 e i 34 anni. Utilizzano la fotografia in maniera diversa, ma con una costante: un approccio consapevole e originale. Li chiamano ancora «giovani», ma sono forse nel momento più importante della loro vita, in cui l’identità non è più il risultato di un’ideologia ma di un’esperienza, quella vissuta sulla loro pelle. Nel 2024 il loro lavoro si è distinto all’interno di musei, premi e iniziative internazionali ed è per questo che abbiamo deciso di chiedere loro cosa ne pensano della fotografia e di ciò che ci gira attorno. 

In un settore che lascia poco spazio di azione, parola e pensiero alle nuove generazioni (contrariamente a quanto possa sembrare viste le innumerevoli open call e mostre di «artisti emergenti») abbiamo provato ad ascoltarli. Nonostante la varietà di pratiche (dal linguaggio documentario a quello concettuale) e le diverse provenienze geografiche, emerge un quadro uniforme nelle difficoltà e aspirazioni. Dalla preoccupazione per un mondo che corre veloce senza possibilità reali di confronto tra addetti ai lavori, alla problematica concreta (e sistemica) delle scarse retribuzioni, è rincuorante notare come le voci delle nuove generazioni siano allineate verso una concezione seria e professionale del mondo fotografico, che trascende i trend di mercato e le mode passeggere.

Amin Yousefi, «Eyes Dazzle as they Search for The Truth», 2022. Courtesy l’artista

Benedetta Casagrande, opere della mostra «All things laid dormant», presso Triennale di Milano fino al 16 marzo. Courtesy l’artista

Quali sono le principali sfide e difficoltà che avete incontrato nel 2024?

Lucrezia Zanardi (1994, Italia): Conciliare il lavoro artistico con le attività ancillari che garantiscono il mio sostentamento. Vorrei trovare un equilibrio più stabile tra insegnamento, assistenza museale e attività freelance, così da dedicare più tempo alla ricerca e alla produzione.

Andrea Orejarena (1994, Colombia) & Caleb Stein (1994, Gb): Una delle sfide più grandi è stata orientarsi in un’epoca in cui le immagini si muovono più velocemente del pensiero. La fotografia ha sempre riguardato il tempo (congelandolo, allungandolo, stratificandolo), ma ora le immagini rischiano di diventare prive di peso, scivolando via prima di poter essere viste. La domanda è come riportare la presenza nell’atto di guardare. Forse la soluzione non è rallentare le cose, ma ripensare al significato di attenzione in un mondo accelerato.

Rebecca Moccia (1992, Italia): Purtroppo in Italia, per cattive pratiche e lacune giuridiche, è ancora difficile ottenere un compenso che non sia legato alla vendita di un’opera (penso alla ricerca, alla realizzazione di mostre, progetti, laboratori). Un problema che per fortuna sta emergendo sempre di più, anche grazie al lavoro di AWI, associazione di cui faccio parte e a cui è stata commissionata nel 2024 una capsule proprio su questa testata.

Amin Yousefi (1996, Iran): È frustrante vedere come l’aspetto finanziario della fotografia sia spesso trascurato, soprattutto se lo si confronta con le risorse destinate ad altri aspetti delle mostre o delle istituzioni. Ci si aspetta che gli artisti contribuiscano con il loro lavoro, il loro tempo e spesso anche con i loro mezzi, ma il valore dei loro contributi non sempre si riflette nel modo in cui vengono trattati, anche economicamente.

Sofiya Chotyrbok (1991, Ucraina): La committenza è scarsa e spesso riservata a nomi già affermati. Spero in più open call dedicate a progetti in fase di sviluppo, anziché solo a lavori già conclusi su temi predefiniti, per dare spazio a nuove idee e visioni ancora in divenire.

Guanyu Xu (1993, Cina): Penso che il finanziamento sia il problema principale per gli artisti, soprattutto per quelli che lavorano con la fotografia. Il mercato è conservatore, come lo sono generalmente le istituzioni negli Stati Uniti, dove vivo. Ho lasciato il mio lavoro a tempo pieno come insegnante nel 2023, nel 2024 mi sono concentrato sul capire se potevo sostenere la mia vita e carriera artistica con i miei risparmi, progetti freelance, grant e la vendita di opere. A lungo termine, non credo sarà possibile.

Benedetta Casagrande (1993, Italia): Una delle grandi difficoltà per me è stata continuare a essere produttiva di fronte al genocidio palestinese, in un contesto in cui la gran parte delle istituzioni culturali si sono mantenute in silenzio. Il 2024 è stato un anno importante per la mia carriera, eppure non ho mai guadagnato così poco. Un mondo dell’arte in cui solo chi ha dei patrimoni pregressi riesce a dedicarsi in maniera sostenuta alla produzione artistica ha qualcosa che non va.

Luca Massaro (1991, Italia): Nel 2024 avrei voluto avere in Italia le stesse possibilità di esposizioni istituzionali che ho avuto in Svizzera nello stesso anno, prodotte da MBAL Museum e Kunsthaus Pasquart. Non sono esterofilo ma l’Italia è la culla dell’arte e deve tornare a investire nell’unica cosa che l’Intelligenza Artificiale non può capire o migliorare, che è il misterioso linguaggio dell’arte.

River Claure (1997, Bolivia): Ultimamente sto cercando di tracciare una chiara distinzione tra “pratica artistica” e “carriera artistica”, poiché le sfide in ciascuna di esse sono molto diverse. Trovo più ostacoli nella seconda categoria. Può sembrare un problema ovvio, ma molti giovani artisti e colleghi continuano a chiedermi come si possa vivere del proprio lavoro. Sto ancora cercando di capirlo anch’io. Far parte del mercato dell’arte mantenendo al contempo una vita dignitosa, senza compromettere i propri interessi vitali, è una sfida costante. Ci troviamo spesso di fronte a un’agenda di temi che sembrano vendere bene e altri no, il che può diventare una trappola se non siamo chiari sulle nostre convinzioni.

Andrea Orejarena & Caleb Stein, «Camouflage Cherry Tree», 2023. Courtesy gli artisti, Palo Gallery, New York e Vin Gallery, Shanghai

Rebecca Moccia, «Ministries of Loneliness», 2024, installazione presso il Dong-gok Museum of Art. Courtesy l’artista e Padiglione Italia-15ma Gwangju Biennale. Foto: Parker McComb

Di fronte alla società di oggi, di che cosa dovremmo prenderci cura come persone che lavorano nel mondo della cultura?

Lucrezia Zanardi: Della fragilità, promuovendo una rivoluzione gentile che parta dal processo creativo, abbracciando dubbi e ricerca continua. Al di là dei nomi e del valore economico dell’arte, è essenziale restare centrati sulla necessità del creare, rendendo il dialogo artistico più accessibile, sincero e meno gerarchico, affinché possa realmente risuonare con le persone e la società.

Andrea Orejarena & Caleb Stein: Pensiamo ci sia molto potere nella produzione culturale collettiva. Questo è anche un momento profondo per riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia e sul modo in cui essa modella la nostra percezione della verità.

Rebecca Moccia: Credo nell’accessibilità della cultura, anche in termini di dare la possibilità di farla (ad esempio riconoscendola e regolamentandola quale “vero” lavoro), sia in riferimento alle comunità a cui essa si rivolge, senza renderla un privilegio. Credo inoltre che dovremmo occuparci di difendere l’autodeterminazione delle persone e dei popoli, la libertà di tutte e tutti di esprimere dissenso e contronarrazioni.

Amin Yousefi: Della resistenza. Di fronte alle crescenti pressioni diplomatiche delle istituzioni culturali, dove il conformismo viene spesso premiato, la resistenza non è solo un’opzione, ma una necessità. Lo abbiamo visto nell’esclusione di artisti da festival e mostre a causa delle loro voci sulla Palestina. Senza resistenza, rischiamo un paesaggio di arte obbediente e uniforme, dove la protesta è ridotta a un linguaggio controllato e prevedibile.

Sofiya Chotyrbok: Del nostro tempo. Viviamo sommersi da informazioni rapide, con l’illusione di dover essere sempre al passo, il che genera frustrazione e un senso di inadeguatezza. Serve una rete di scambio reale e più spazi culturali d’incontro, oltre ai festival noti. Dovremmo promuovere momenti di riflessione e lentezza.

Guanyu Xu: Sembra che la verità non abbia più importanza. Con la crescente diffusione di narrazioni neofasciste nel mondo e il bombardamento di notizie fuorvianti o false da parte dei media controllati dalle grandi corporazioni, siamo desensibilizzati e impotenti. L’impegno civico è sostituito dalla cultura neoliberista del consumo, rafforzata dai social media e dalla cultura dello schermo. Quando l’istruzione viene sostituita dallo scrolling compulsivo e il sogno rimpiazzato dall’economia dei lavoretti, non so quanta cultura rimarrà da creare. Dobbiamo contrastare i miti imposti dalle narrazioni egemoniche, portare opere che abbiano criticità e complessità, non solo spettacolo.

Benedetta Casagrande: Le pratiche artistiche e culturali dovrebbero essere dei siti di sperimentazione di modalità sociali ed economiche alternative, dissidenti. Ma c’è una distanza incolmabile tra gli interessi del mercato dell’arte, delle istituzioni culturali, e degli operatori culturali: è fondamentale riconoscere che i nostri desideri e i nostri interessi non coincidono. 

Luca Massaro: Sono affascinato dall’IA e dalle nuove tecnologie, ma sono stanco della velocità dei trend, delle semplificazioni matematiche del virtuale e dall’appiattimento culturale senza antagonismi. Credo che proprio dallo studio di un nuovo medium come l’IA dobbiamo imparare a “ri-mediare” quelli antichi, che oggi mi sembrano più contemporanei che mai. Artisti e curatori dovrebbero investire nella qualità del linguaggio personale misterioso e “balbettato”. Gilles Deleuze parlando di Carmelo Bene, raccomanda di “essere uno straniero, ma nella propria lingua. Balbettare, ma essendo balbuziente nel linguaggio stesso, e non soltanto nella parola (...) Significa imporre alla lingua, a tutti gli elementi interni della lingua, fonologici, sintattici, semantici, il lavorio della variazione continua”.

River Claure: Mi ha profondamente stancato vedere come alcune istituzioni e media culturali continuino a feticizzare tematiche urgenti della società. Stiamo vivendo un momento di transizione in cui i valori del passato persistono, pur deteriorandosi sotto i nostri occhi. In questo scenario, è fondamentale essere sia critici che sensibili a questi cambiamenti, per evitare di cadere in ripetizioni o in nuove dinamiche di potere mascherate da diversità o interculturalità.

Luca Massaro, «Painting», Buenos Aires. Courtesy l’artista

Lucrezia Zanardi, «Rilke» dalla serie «Present Traces of a Past Existence. A Photographic Research»

Che cosa sperate per il 2025?

Lucrezia Zanardi: Spero in un dialogo sempre più transnazionale, che superi i confini italiani per arricchire, espandere e contaminare le pratiche e il linguaggio fotografico. Auspico una produzione fotografica capace di essere un mezzo critico e politico, in grado di portare alla luce storie silenziate ed emozioni, e di far riflettere e dialogare sulle molteplici crisi, geopolitiche e di senso, che stiamo attraversando.

Andrea Orejarena & Caleb Stein: Speriamo in un anno in cui la fotografia approfondisca il suo ruolo come forma di indagine, con una maggiore collaborazione e concezioni meno individualistiche della paternità, e una definizione ampliata di ciò che è la fotografia.

Rebecca Moccia: La mia speranza è che si vada eliminando la concezione (sia ministeriale che culturale) di un “mondo della fotografia” separato dalle altre espressioni dell’arte contemporanea.

Amin Yousefi: Spero di vedere una rinascita della critica autentica. In passato, la critica è stata uno strumento essenziale per il progresso, ma l’ambiente odierno è dominato da recensioni sommarie, inutili cortesie ed esitazioni.

Sofiya Chotyrbok: Vorrei più opportunità concrete al di là dei festival, spazi di crescita e dialogo che valorizzino la fotografia in tutta la sua complessità, senza limitazioni imposte dal mercato o dalle tendenze del momento.

Guanyu Xu: Spero che vengano realizzati più lavori con criticità, profondità e con uno spirito di chiamata all’azione. Non abbiamo bisogno di un altro progetto di inclusione “simbolica” (l’artista usa il termine “tokenism”, Ndr) o della creazione di altri miti autoreferenziali.

Benedetta Casagrande: Più finanziamenti di ricerca diretti agli artisti. Leggi e regolamentazioni del lavoro artistico (come l’obbligo a retribuire gli artisti esposti in mostra; leggi sulla suddivisione delle percentuali delle vendite delle opere; codici Ateco e tassazioni adatte alla nostra realtà lavorativa ecc.). Più potere contrattuale. Prese di posizione chiare da parte delle istituzioni. 

Luca Massaro: Spero in mostre istituzionali per la mia generazione, che non dovrebbe essere più considerata “giovane”. L’unico modo per fare un lavoro importante è farlo con un gruppo di persone che cresce insieme: “scenius” (una scena) piuttosto che “genius” (individuo) dice Brian Eno.

River Claure: Spero che nel 2025 ci sia più spazio per tutti. Che come artisti e operatori culturali torneremo a essere generosi e sensibili. Ma soprattutto, che rimarremo fedeli ai nostri interessi vitali, a ciò che tiene il cielo sopra le nostre teste, piuttosto che semplicemente alla terra sotto i nostri piedi.

River Claure, «Don Raymundo» dalla serie «Mita», 2022-24. Courtesy l’artista

Sofiya Chotyrbok, dal progetto «Deficit», 2019. Courtesy l’artista

Rica Cerbarano, 21 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

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