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Mohamed Bourouissa, «Le Cercle Imaginaire», 2007-08

© Mohamed Bourouissa Adagp. Courtesy of the artist and Mennour, Paris

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Mohamed Bourouissa, «Le Cercle Imaginaire», 2007-08

© Mohamed Bourouissa Adagp. Courtesy of the artist and Mennour, Paris

Per Mohamed Bourouissa l’arte è uno spostamento del nostro sguardo sulle cose

In occasione della mostra alla Fondazione Mast, abbiamo incontrato l’artista franco-algerino per parlare di comunità, esperienza e relazioni

Rica Cerbarano

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Quella di Mohamed Bourouissa è quel tipo di arte di cui abbiamo bisogno oggi. Frutto di tempi lunghi, di relazioni interpersonali concrete, di un’osservazione metodica ma non scientifica. Un’arte non sbandierata, ma implicitamente politica. Un’arte ibrida, dove la fotografia si dichiara come punto di partenza, ma riesce a rimodularsi continuamente, adattandosi alla storia che racconta. Senza ripetersi, ma anche senza tradirsi.

Che una grande istituzione come la Fondazione Mast di Bologna ospiti un’ampia personale di questo artista franco-algerino è una bella, bellissima notizia per il panorama fotografico italiano. A cura di Francesco Zanot, «Communautés. Projets 2005-2025», visitabile fino al 28 settembre, presenta quattro serie di opere: «Péripherique» (2005-08), «Horse Day» (2013-19), «Shoplifters» (2014) e l’inedita «Hands» (2025).

La scelta di questi lavori, che attraversano vent’anni di carriera, evidenzia i temi centrali della pratica di Bourouissa: la comunità intesa come spazio condiviso fatto di pluralità; il processo di scambio e interazione necessario per la costruzione di intese reciproche; l’immagine come paradosso, nel suo essere strumento di liberazione, ma anche di controllo. Adottando un approccio basato sull’ibridazione e la stratificazione dei linguaggi, l’opera di Bourouissa intreccia la fotografia con la scultura, il film, il disegno e infine la musica, aprendo nuove possibilità narrative che valorizzano la molteplicità dei punti di vista e la frammentazione. Come a dire: «Non c’è un solo modo di vedere le cose. Questo è il mio. E il tuo?».

Abbiamo incontrato Mohamed Bourouissa per approfondire il suo lavoro.

Nei suoi progetti lei è profondamente immerso nelle comunità che racconta. Penso, ad esempio, a «Périphérique», dove ha collaborato con amici e conoscenti alla costruzione di messe in scena fotografiche ispirate ai codici pittorici occidentali. In un certo senso, si potrebbe dire che il suo lavoro evidenzia i processi di esclusione della subcultura contemporanea dal discorso pubblico. Tuttavia, la stessa definizione di «subcultura» è problematica. In una precedente intervista, infatti, lei ha affermato: «La subcultura di cui parlo è la mia cultura». Quanto hanno influenzato il suo background, sia sociale che familiare, nel modo in cui concepisce l’arte e il suo ruolo nel mondo contemporaneo?
Quando parlo di subcultura, faccio riferimento al fatto si tende a dividere l’arte in due categorie: l’arte alta, quella principale, e l’arte bassa, considerata secondaria, anche se oggi le cose effettivamente sono un po’ cambiate. Venendo da una famiglia che non ha un background artistico, il mio primo rapporto con l’arte è stato attraverso i cartoni animati, le «bandes dessinées» e poi i graffiti. Per questo motivo non faccio una distinzione tra un’arte minore e un’arte maggiore, ma anzi penso ci sia un’interdipendenza tra questi generi. Il termine subcultura implica una gerarchia. Io cerco di raccontare semplicemente quello che mi circonda, che fa parte, appunto, della mia cultura.

Mohamed Bourouissa, «Ride Day #2», 2019. © Mohamed Bourouissa Adagp. Courtesy of the artist and Mennour, Paris

Ha citato i graffiti, prima espressione artistica con cui si è confrontato negli anni dell’adolescenza e che ancora oggi rimangono un’eredità importante per lei. In che modo, nel suo lavoro attuale, affronta l’atto di riappropriazione dello spazio pubblico?
Oggi porto avanti la mia pratica artistica in due direzioni. Da un lato, all’interno del mio atelier dove sviluppo un lavoro più visivo; dall’altro, nello spazio pubblico, attraverso una pratica che si inserisce nei luoghi di socialità. A questo proposito, un buon esempio è La Kermesse, un festival che da tre anni organizziamo a Gennevilliers, la cittadina vicino a Parigi dove vivo. Il festival si svolge in Piazza Indira Gandhi, uno spazio urbano generalmente poco frequentato e privo di attività. In collaborazione con associazioni e artisti, cerchiamo di «abitare» questo luogo, trasformandolo temporaneamente in uno spazio di incontro e condivisione. Per me, questo tipo di intervento rappresenta una forma di cittadinanza attiva: un modo per riappropriarsi degli spazi abbandonati attraverso l’arte. È anche una pratica che definirei «ludica», perché punta a ridurre quella distanza spesso percepita tra artista e pubblico. È un tentativo di desacralizzare l’arte, renderla più accessibile e vicina alle persone.

«Horse Day» è un progetto in cui il processo di scambio, dialogo ed esperienza riveste un ruolo centrale, forse persino più importante del risultato finale. Qual è, secondo lei, il rapporto tra il processo creativo e l’output formale? Quali sono le principali sfide nel rendere visibile l’importanza dell’esperienza dietro il progetto?
Questa tematica mi sta particolarmente a cuore. Per me, è l’esperienza stessa a costituire l’opera: ciò che riceviamo da un’opera è, in fondo, uno spostamento, anche fisico, del nostro sguardo sulle cose. Considero l’esperienza il nucleo di tutta la mia pratica. Posso raccontare come cerco di renderlo visibile attraverso due lavori. Il primo è «Tamor», un cortometraggio nato da uno scambio con un amico che al tempo si trovava in prigione. Il progetto si sviluppa a partire dai messaggi che ci scambiavamo durante il suo periodo di detenzione. Il cuore del lavoro però non è tanto il risultato finale quanto la creazione di un’amicizia, tra me e lui, io fuori dalla prigione, lui dentro. L’opera è la relazione che si è costruita nel tempo. Anche in «Horse Day», ciò che sta al centro è la relazione. Il lavoro comprende una proiezione a due canali, articolato su due temporalità distinte. Da un lato, c’è la documentazione dell’evento artistico; dall’altro, la costruzione delle relazioni tra gli artisti e i «cavalieri» coinvolti nel progetto. In questo modo il film restituisce sia l’esperienza diretta dell’evento, sia quella più invisibile, ma altrettanto significativa, della creazione di un legame in un contesto complesso come il nord-est di Filadelfia. In ogni caso, credo che, per quanto si possa tentare di raccontarla, un’esperienza non si può mai restituire pienamente. È qualcosa che si vive in un momento preciso, può essere testimoniata, evocata, ma renderla effettivamente tangibile e rivivibile, è impossibile. Ed è per questo motivo che mi sono spostato verso creazioni più impalpabili.

Il suo lavoro nasce dall’urgenza di decostruire i sistemi di potere e le narrazioni dominanti della società capitalista. C’è un continuo interrogarsi sull’etica dello sguardo, come dimostra il progetto «Shoplifters». Qual è, secondo lei, la responsabilità di chi crea immagini?
Cerco sempre di essere molto concreto nel mio approccio, evitando uno sguardo troppo generale o astratto sulle cose. Non pretendo di avere una visione giusta o definitiva: ho semplicemente la mia visione, e non posso spingermi oltre. «Shoplifters» ha rappresentato un vero dilemma etico e morale. Creare un progetto con quelle immagini è stato un passo difficile, un gesto a cui ho pensato a lungo. Ho esitato molto prima di decidere di renderle pubbliche, perché portavano con sé una doppia problematica. Si tratta di fotografie che ho trovato esposte nella vetrina di un minimarket a Brooklyn. Mostravano persone colte nell’atto di rubare, immagini usate dal proprietario del negozio come forma di deterrente, per impedire che quei soggetti tornassero a commettere quei piccoli furti. Siccome erano immagini sgranate, di pessima qualità, le ho fotografate a mia volta e poi le ho lavorate per migliorarle. Fatto ciò, mi trovavo di fronte a una questione etica, rispetto alla possibilità di renderle pubbliche o meno, perché in qualche modo testimoniavano una forma di violenza. Del resto, le prime fotografie scattate all’inizio del secolo avevano proprio come obiettivo quello di identificare le persone, e questo dimostra come anche la fotografia può essere uno strumento per perpetuare gesti di oppressione. Ma quello che io osservo in queste immagini, al di là delle persone ritratte, è la persona che le ha realizzate in origine. Il mio sguardo non è più rivolto solo al soggetto fotografato, ma all’autore di quell’atto fotografico. E, in definitiva, guardo me stesso: come fotografo, che guarda questa persona che ha realizzato le fotografie, mettendo in atto una forma di violenza.

Dal momento che il suo lavoro mira a smascherare i meccanismi di diseguaglianza presenti nella nostra società, affronta anche tematiche scomode per il mondo dell’arte, profondamente compromesso dalle dinamiche del capitalismo. Come riesce a bilanciare la sua libertà espressiva con l’esigenza di inserirsi in un contesto fortemente mediato?
Nella mia pratica artistica cerco costantemente un modo per affrontare questo tema, sia attraverso i lavori che metto in mostra, sia attraverso ciò che faccio «dietro le quinte». Si tratta di trovare un equilibrio, a volte ci riesco, altre volte meno. È la realtà di essere un artista: cerchi di fare il meglio che puoi, ma sai che non potrai mai essere perfetto.

Mohamed Bourouissa, «Shoplifters». © Mohamed Bourouissa Adagp. Courtesy of the artist and Mennour, Paris

Rica Cerbarano, 09 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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