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Mickalene Thomas, «A Little Taste Outside of Love», 2007

Foto: Mark Blower. Cortesia dell’artista e della Hayward Gallery

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Mickalene Thomas, «A Little Taste Outside of Love», 2007

Foto: Mark Blower. Cortesia dell’artista e della Hayward Gallery

Collage, sensualità e rifiuto delle convenzioni accomuna Mickalene Thomas e Linder

Le mostre delle due artiste alla Hayward Gallery di Londra non colpiscono sempre nel segno, ma entrambe esprimono momenti di gioia ribelle e contagiosa

Linder vide la strada che la società le aveva indicato e disse: «No, grazie, non fa per me». Nonostante la liberazione promessa dagli anni Sessanta e dalla rivoluzione sessuale, la Gran Bretagna del dopoguerra era ancora un luogo conservatore e tradizionale, e il futuro dell’artista britannica come donna della classe operaia del Nord (era nata a Liverpool nel 1954) era chiaro: lavori domestici, educazione dei figli, cura della casa e un lungo, lento e noioso cammino verso la tomba. Non era questo il destino di Linder. Così, negli anni Settanta, ha frequentato il Politecnico di Manchester per studiare Graphic Design, è stata coinvolta nella nascente scena punk e ha deciso di dedicarsi alla lotta contro le regole e gli uomini

La mostra «Linder: Danger Came Smiling» a cura di Rachel Thomas con Gilly Fox e Katie Guggenheim e in corso nella Hayward Gallery fino al 5 maggio, ricca dei suoi caratteristici collage di fotomontaggi, è un tripudio di eccitante umorismo, immagini sovversive e vera e propria ribellione. Inizia con la Linder più emblematica. Il suo fotomontaggio di una donna nuda con bocche sorridenti al posto dei capezzoli e un ferro da stiro al posto della testa è l’immagine che meglio connota il lavoro di Linder: un «up yours» semierotico rispetto alle norme di genere e alle aspettative della società che, come copertina del singolo «Orgasm Addict» (1977) dei Buzzcocks, è stato catapultato con tale forza nel panorama culturale dell’epoca da diventare parte del tessuto estetico della Gran Bretagna moderna. Allora l’artista era ancora una studentessa. Che modo di dare il via alla propria carriera! E c’è molto di più. 

Tutti questi primi fotomontaggi sono una fusione di pornografia, elettronica di consumo e critica sociale. Una donna si conficca una forchetta negli occhi mentre abbraccia un uomo, le parti intime di un ragazzo sono sostituite da un aspirapolvere Hoover, una camera da letto è piena di telecamere giganti. Più e più volte, i corpi di donne nude sono combinati con ferri da stiro, bollitori e lavatrici. Niente di tutto questo è particolarmente sottile, ma è palese nella sua messaggistica antimainstream e anticonformista. Ed è per questo che funziona. Linder era anche una musicista, la cantante del gruppo punk Ludus. Le opere d’arte dei loro 33 giri sono esposte in vetrine: tutte spigolose, spoglie e glamour in nero e rosso geometrico. C’è poi una raccolta di maschere fatte di lingerie, create per Howard Devoto, il cantante dei Buzzcocks e successivamente dei Magazine. Sono oscene e sciocche, ma allo stesso tempo serie e satiriche

Al punk è sempre piaciuto giocare con il fetish e il kink, ma Linder si è spinta oltre rispetto a quasi tutti gli altri artisti della sua epoca. Ma il fatto è che i primi lavori di Linder avevano un’identità visiva così forte e una serie di ideali così feroci che sembra che abbia trascorso il resto della sua carriera sostanzialmente lacerando sé stessa. La mostra è colma di fotomontaggi degli ultimi vent’anni che, per la maggior parte, potrebbero essere stati realizzati negli anni Settanta. Gli aspirapolveri e i ferri da stiro sono stati sostituiti da fiori, ma l’impostazione e l’estetica del lavoro sono rimaste invariate. È troppo ripetitivo allestire una mostra simile in così tante sale e si ha la sensazione che il team curatoriale avrebbe potuto e dovuto fare di più con il video e il suono (i video di Linder che si esibisce in un abito di carne con Ludus erano esposti anche nella recente mostra «Women in Revolt!» della Tate Britain) per creare qualcosa di più completo e speciale. Ci sono altre cose qui: fotografie del frontman degli Smiths Morrissey e di drag performer, immagini ispirate allo sploshing (è una forma di feticismo sessuale che utilizza cibo, Ndr), scarpe con lunghi capelli biondi, costumi per un balletto, una teca di sculture di vetro che viene spiegata a malapena. Non c’è nulla di sbagliato in tutto questo, ma i primi lavori gettano un’ombra troppo densa per far emergere qualsiasi altra cosa.

Linder, «It’s The Buzz, Cock!», 2015. Foto: Mark Blower. Cortesia dell’artista e della Hayward Gallery

Collage caotici

Contemporaneamente la Hayward Gallery presenta, sempre fino al 5 maggio, anche la mostra «Mickalene Thomas: All About Love», a cura di Rachel Thomas e Thomas Sutton. Collage, sensualità, glamour e un audace rifiuto delle norme e delle convenzioni sono un approccio che Mickalene Thomas (Camden, New Jersey, 1971) condivide con Linder. L’artista statunitense utilizza strumenti simili per piantare una serie di chiodi concettuali simili: ma invece di un’umoristica ribellione punk, il lavoro di Thomas è gioioso, provocatorio e celebrativo. Le sue enormi tele sono una collisione di collage e strass. Scintillano alla luce, tempestate di paillette e ciottoli diamantati; sono in parte lussuose e stravaganti, in parte quaderni per adolescenti. 

Thomas inserisce le donne nere in nuovi contesti storici dell’arte: un nudo reclinato alla maniera dell’«Olympia» di Édouard Manet, un’odalisca con un po’ di Vermeer. Ma queste non sono le modelle pallide e scintillanti dell’arte fiamminga o del Neoclassicismo, sono donne nere che reclamano spazio nella storia dell’arte. Si tratta di un’abile sfida al confronto. Perché laddove un’odalisca era una concubina e l’«Olympia» di Manet era doverosamente accudita da una serva nera, i dipinti di Thomas sono atti di sovversione, appropriandosi di queste narrazioni storiche dell’arte per glorificare la bellezza femminile nera. La dimensione domestica appare più volte. 

Nella seconda galleria sono stati ricostruiti due salotti, pieni di 33 giri di Donna Summer e di tappeti in shag, che riempiono lo spazio con i suoni lussureggianti da discoteca degli anni Settanta. Questi ambienti interni provengono dalla vita dell’artista, con calchi in bronzo dei braccialetti e delle scarpe della madre defunta e tappezzerie ispirate alla nonna. È una celebrazione dell’incontro, della famiglia, del modo in cui l’ambiente circostante si modella e in cui esso modella noi

Al piano superiore, l’approccio al collage di Mickalene Thomas va in tilt: vaste tele mescolano fotografia, pittura e strass con macchie di pixel. Sono caotiche, quasi totalmente fuori controllo, e sono le opere migliori. C’è anche più domesticità: le opere in cui Thomas che sembra lottare con sé stessa sono mostrate in un boudoir privato, rivestito di legno e dotato di poltrone sacco per il piacere di una visione rilassata. Non tutto è buono e non tutto funziona. Non è particolarmente chiaro perché ci sia un’enorme presenza di piante d’appartamento, e il lavoro più politico sulla resistenza e le rivolte sembra essere stato affrontato in modo un po’ superficiale. E anche se personalmente trovo tutto troppo scintillante e raffazzonato, l’estetica di Mickalene Thomas è indiscutibilmente unica e ben definita: tutto sembra palesemente e ovviamente di Mickalene Thomas, e nessun altro. Tutti gli infiniti riferimenti del suo lavoro a Manet, alla violenza della polizia, a Eartha Kitt e alle top model si fondono in un collage di culture e influenze, una celebrazione della bellezza e della fiducia, della provocazione e della resistenza. Questa è gioia come resistenza, ed è totalmente contagiosa.

Eddy Frankel, 24 marzo 2025 | © Riproduzione riservata

Collage, sensualità e rifiuto delle convenzioni accomuna Mickalene Thomas e Linder | Eddy Frankel

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