Gianfranco Fina
Leggi i suoi articoliIl gusto per l’antiquariato è cambiato più volte nel corso dei secoli: dalla passione dei romani che, tra la tarda Repubblica e il primo Impero, cercavano di entrare in possesso delle più belle opere realizzate in Grecia tra il V e il I secolo a.C., alla rinascita carolingia dell’VIII secolo attenta ai fasti dell’Impero Romano d’Occidente; dai vasti e profondi interessi per l’arte, le scienze e la filosofia orientale di Federico II di Hohenstaufen (Federico di Svevia 1194-1250) alla scoperta di Pompei ed Ercolano nello stato pontificio di Clemente XIV (1769-74), ritrovamento che tramite i disegni di Piranesi accese l’interesse per l’arredo in stile Impero che coprì in maniera uniforme tutta l’Europa, Inghilterra e Russia comprese: il ritorno all’apprezzamento dell’arte e della cultura del passato si è manifestato più volte nei venti secoli dopo Cristo. Questa passione che muoveva le corde degli uomini più ricchi e colti era da sempre gestita, talvolta con perizie e onestà, talvolta con furbizia e opportunismo, da una categoria di intermediari che fin dagli albori di questa attività si chiamarono antiquari. Taluni furono così importanti da meritarsi l’onore di un ritratto da parte di Tiziano, come Jacopo Strada, ideatore tra l’altro, verso il 1560, dell’antiquarium del duca Alberto V di Baviera, un raffinato insieme di statue dell’antichità classica ancor oggi visibile a Monaco nel Residenzmuseum, altri meno conosciuti che portavano le loro trouvailles a quei signori rinascimentali, come i Gonzaga e i Medici, che in poche generazioni raccolsero le più belle opere di oreficeria romana che fino ad oggi si conoscano.
Dopo la rivoluzione francese apparve una nuova fascia sociale: quella della borghesia ricca e letterata, soprattutto francese e inglese, che dal 1830 circa divenne ricercata dall’alta società, soprattutto per il denaro fresco e facile da spendere di cui era largamente provvista. Così i nuovi snob (sine nobilitate), riuscendo finalmente a frequentare quella nobiltà altera che durante l’Ancien Régime non li aveva mai presi in considerazione, cominciarono a desiderare per i loro nuovi e sontuosi hôtel particuliers quegli arredi che non avevano mai avuto e forse fino ad allora neppur desiderato possedere. Così il démi-monde medio borghese si riversò per acquisti nelle prime botteghe dove si potevano comprare oggetti, dipinti mobili lasciati per necessità o per disaffezione dalla nobiltà che con quegli arredi avevano convissuto per generazioni. I titolari di queste botteghe erano sovente di religione ebraica e vendevano per lo più ciò che non era stato riscattato nei loro banchi feneratizi. Ancora oggi la presenza di antiquari ebrei è largamente diffusa in tutta Europa e nel Nord America, e si può tranquillamente affermare che la moderna fisionomia di questo mestiere è dovuta proprio alle migliaia di quelle piccole e grandi botteghe famigliari che dalla metà dell’Ottocento ad oggi hanno popolato interi quartieri delle grandi città. Nello sfolgorante periodo di Napoleone III alcuni di questi antiquari raggiunsero, per competenza, abilità e fortuna, vertici assoluti di popolarità, come ad esempio Frédéric Spitzer, la cui casa-galleria all’Arc de Triomphe era considerata l’ottava meraviglia del mondo artistico. Nel suo salotto si potevano incontrare ad esempio Adolphe de Rothschild e William Hearst come i curatori del British Museum, della National Gallery e del Victoria and Albert Museum, magari mentre Franz Listz suonava al pianoforte. Moltissimi tra i pezzi più rari, soprattutto d’oreficeria medievale, che oggi incontriamo nei maggiori musei, provengono dalla galleria di questo grandissimo antiquario d’origine austriaca e figlio di un becchino.
Sono questi gli anni in cui nell’Italia ormai unificata appaiono le prime figure di collezionisti bulimici quali furono a Milano Gian Giacomo Poldi Pezzoli e i fratelli Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi. Tutti e tre uniti da caratteristiche simili: intelligenza pronta, larghezza di vedute, amore verso l’arte italiana (che solo da pochi anni poteva, a pieno diritto, definirsi tale, e non più sabauda, veneta, romana o borbonica), parentele strette con le più antiche e facoltose famiglie lombarde (la mamma di Poldi Pezzoli era una Trivulzio, la moglie di Giuseppe Bagatti era una Borromeo), stretta frequentazione con artisti, critici, architetti e decoratori quali Giuseppe Molteni, Domenico Morelli, la coppia Giuseppe Bertini e Luigi Scrosati e l’architetto Luca Beltrami che diedero continui consigli per l’acquisizione e l’inserimento delle opere nel contesto delle loro abitazioni. La casa-museo Poldi Pezzoli s’inaugurò nell’aprile 1881 e pochi anni dopo i due fratelli Bagatti-Valsecchi s’insediarono nella loro nuova abitazione, in cui i discendenti abiteranno fino al 1974 e che diventerà museo circa vent’anni dopo.
Certo la logica con cui nascevano e crescevano queste iniziative era molto diversa da quella che ai giorni nostri accompagna i «nuovi» acquirenti d’arte antica o moderna. Non più acquisti compulsivi effettuati secondo il piacere personale riempiendo tutte le sale e le pareti disponibili, ma acquisti molto ragionati e calibrati, indirizzati verso artisti e opere sceltissimi e obbligatoriamente accompagnati da certificati di autenticità firmati dai maggiori specialisti di ogni settore o dalle fondazioni. L’antiquario ha finalmente perso la figura del «guru», del personaggio che magicamente percepiva l’importanza di un’opera d’arte tramite un semplice sfioramento o per istinto naturale o per messaggi subliminali, inviati chissà da chi e chissà perché. Basta leggere una qualsiasi delle biografie dei vecchi antiquari del Novecento per rendersi conto che la loro professionalità e competenza, che indubbiamente c’era, è troppo sovente mascherata da un’aura di magia e di mistero, con racconti farciti di trouvailles impossibili per tutti gli altri mercanti. Detto ciò, bisogna riconoscere che le case che arredavano erano quasi sempre molto eleganti, ma autentici capolavori troppo spesso si trovavano affiancati a opere pesantemente restaurate o di recente fabbricazione, inserite a forza dai mercanti, sfruttando la cieca fiducia che i nouveaux riches del secondo dopoguerra concedevano loro. L’autenticità di un’opera era implicita nel semplice acquisto da «quel» mercante, per cui, parafrasando il marchese del Grillo: quest’opera è autentica perché lo dico io, perché sono io e voi non capite nulla. Finalmente quel tempo è finito, l’antiquario non è più un personaggio carismatico dal verbo inconfutabile, ma è un serio professionista che lavora a fianco degli storici dell’arte e dei restauratori più rigorosi per offrire al cliente, che giustamente è diventato assai più esigente di un tempo, un’opera d’arte che è esattamente quello che appare. Sovente l’antiquario moderno (non è un ossimoro) è laureato in storia dell’arte, ha frequentato stages nelle maggiori case d’asta internazionali, dove ha avuto la possibilità di vedere un’enorme quantità di opere diverse, che nella propria bottega non avrebbe mai potuto vedere.
Nello stesso tempo le nostre case non sono più necessariamente contenitori di tante cose più o meno antiche disposte con più o meno gusto, ma la rappresentazione materiale della cultura del proprietario che sceglie con la dovuta attenzione tutti gli acquisti. Così le nuove case evidenziano la cultura e il gusto del padrone di casa possono presentare un mix di opere diverse, nella tipologia, nell’epoca, nella provenienza, accomunate però dall’autenticità, dalla provenienza certa, dal restauro non invasivo.
Oggi si parla di collezionismo inteso non più come raccolta obbligata di oggetti simili tra loro, ma di scelta oculata di oggetti anche dissimili tra loro. Forse proprio questa la proposta del «nuovo» mercato antiquario per gli anni a venire.
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