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Come si fa a creare un grande museo nell’età del dubbio

Il Louvre Abu Dhabi, che aprirà nel 2017 dopo più di dieci anni di lavori, si è trasformato in un museo che va oltre la semplice vetrina di arte storica europea: ora vuole essere un’istituzione realmente globale che riflette un nuovo tipo di universalismo

Alexandre Kazerouni

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Sono passati dieci anni dall’annuncio nel 2006 dell’intenzione di creare un distretto culturale sull’isola Saadiyat ad Abu Dhabi (cfr. n. 262, feb. ’07, pp. 38-40), e il tradizionale museo d’arte voluto dagli Emirati Arabi Uniti, frutto di un’influenza quasi esclusivamente francese, si è trasformato in un’istituzione universale. Anche se l’espressione «museo universale» è del tutto rispettabile, con profonde radici nella storia della filosofia europea, il concetto alla base di questo nuovo Louvre sta sconvolgendo profondamente il rapporto convenzionale tra il pensiero e il museo.

Nel luglio 2006, quando venne dato alla stampa l’annuncio del distretto Saadiyat come di un progetto di sviluppo urbano incentrato su un polo per le arti e quattro musei, il nome del Louvre non era ancora coinvolto, a differenza del Guggenheim, che era allora il principale focus dell’interesse. Si discuteva della realizzazione di un museo tradizionale, affidata all’architetto Jean Nouvel. Tuttavia, le trattative con il Louvre erano iniziate già nel 2005, qualche mese prima di contattare il direttore del Guggehneim Thomas Krens.

Il progetto fu ideato nel 2005 dai figli dello sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan con l’intenzione di associare il nome degli Emirati a quello della celebre istituzione francese. Quell’anno fu segnato dalla morte del padre, sovrano di Abu Dhabi dal 1966 e forza trainante dell’unificazione degli Emirati Arabi nel 1971. La transizione dinastica iniziata nel 1990 si era conclusa e il Louvre Abu Dhabi sarebbe stato nelle intenzioni la massima espressione culturale della nuova distribuzione del potere nel Paese. Il futuro museo nasce perciò da una richiesta di Abu Dhabi piuttosto che da una proposta esterna frutto della globalizzazione economica dei musei, come potrebbe suggerire il successivo coinvolgimento della Guggenheim Foundation. Le specifiche museali del progetto furono poi definite a Parigi, che stabilì anche la scelta dei contenuti.

La parola «universalismo» iniziò a essere associata al progetto nel 2005 su iniziativa dell’allora direttore del Louvre Henri Loyrette. C’erano due considerazioni dietro a questo slittamento da un tradizionale museo d’arte richiesto dagli Emirati a quello universale desiderato dai francesi. Innanzi tutto avrebbe consentito alla collezione del Louvre di espandersi oltre i limiti storici dell’arte europea e di coinvolgere altre istituzioni, come il Centre Pompidou per l’arte più recente e il Musée du quai Branly per quella non occidentale. Questo avrebbe significato che la pressione sul Louvre per fornire prestiti per l’intera durata del contratto trentennale si sarebbe potuta suddividere tra dieci musei.

La seconda ragione emerge dalla Dichiarazione sull’importanza e il valore dei musei universali dell’Icom International. Nel 2002 Loyrette fu uno dei 18 firmatari del testo. Sottoscritta anche dalle sue controparti dei più grandi musei europei, americani e russi, dal Metropolitan di New York all’Ermitage di San Pietroburgo, e con il supporto del British Museum, la dichiarazione intendeva fornire una risposta alle richieste di restituzione di arte e manufatti sottratti alla Grecia, all’Italia e alle ex colonie. In essa si affermava che gli oggetti presenti in queste istituzioni occidentali apparteneva all’umanità nella sua totalità e per questo non era necessario che Stati moderni ne contestassero la proprietà.

Questa argomentazione mancava di basi legali e simboliche; era stata formulata al di fuori delle organizzazioni internazionali e senza l’approvazione degli altri musei del mondo. Ecco allora che la richiesta di Abu Dhabi arrivò al momento giusto per porvi rimedio. Sostenendo il concetto di museo universale e dando alle collezioni francesi un luogo per essere esposte in Medio Oriente con il finanziamento degli Emirati, Abu Dhabi aiutò il Louvre a legittimare la dichiarazione del 2002. Non fu solo il «brand» Louvre a essere oggetto di questo accordo, ma anche un’entità politica sovrana al di fuori dall’Occidente.

A queste ragioni tecniche va aggiunta la visione sempre più diffusa in Francia che il Louvre sia l’incarnazione della rivoluzione filosofica dell’Età dei Lumi, espressione coniata da Immanuel Kant, il grande filosofo dell’universalismo nella storia moderna delle idee. In un discorso il 15 ottobre 2011, all’inizio della seconda giornata di studio sul Louvre Abu Dhabi di Parigi, Loyrette chiese: «Che aspetto ha un museo universale di oggi? All’inizio del XXI secolo, come dovremmo rinnovare le promesse fatte dalla rivoluzione e dall’impero? Come interpretarle dopo che più di due secoli hanno portato a un contesto completamente diverso?».

Trovare le risposte a queste domande fu il compito dei curatori francesi incaricati di portare alla luce il nuovo museo. Quale significato ha un museo universale pieno di storia antireligiosa e antimonarchica nella Abu Dhabi del XXI secolo, con la sua monarchia che si è schierata dalla parte dei controrivoluzionari durante la Primavera araba del 2011?

Una narrativa grandiosa L’Agence France-Muséums (Afm), società di servizi controllata dal Ministero della Cultura francese, fu creata dopo l’accordo intergovernativo del 6 marzo 2007 per la creazione del Louvre Abu Dhabi allo scopo di implementarne le direttive. Divisa in due settori, una amministrativa l’altra di studio, ha affidato la definizione della futura grandiosa «narrativa» e della formazione della collezione del museo a un gruppo di curatori di Stato. Dal 2007 questi funzionari, tutti francesi, sono stati sotto la guida di due direttori culturali, Laurence Des Cars, in carica dal 2007 al 2013, e Jean-François Charnier, che ne ha preso il posto.

Sotto la guida della Des Cars, l’Afm ha sviluppato un approccio al concetto di universalismo che si potrebbe descrivere come storico. Questo consisteva nell’ampliare la competenza del Louvre al periodo moderno, rendendolo più autenticamente universale, sia nell’epoca che nella provenienza delle collezioni. Il Louvre, infatti, dopo un periodo nell’Ottocento in cui, grazie alle confische dei beni della Chiesa operate durante la Rivoluzione francese, le guerre napoleoniche in Europa e l’espansione coloniale, si era chiuso in se stesso snella seconda metà del Novecento, donando gran parte delle sue collezioni ad altri musei parigini. Oggi il Louvre non copre la Preistoria né altre civiltà del mondo antico che vadano al di là di un’area mediterranea «allargata» fino alla Persia, e la sua arte si ferma al 1848. Per le epoche precedenti si deve andare al Musée d’Archéologie Nationale di Saint-Germain-en-Laye e, per i periodi più recenti, al Musée d’Orsay e al Centre Pompidou. Eppure tutti questi musei sono partner del progetto Louvre Abu Dhabi attraverso l’Afm. Per quanto riguarda le aree geografiche, anche se nel 2000 il Louvre ha fatto spazio all’arte da Africa, Asia, Oceania e Americhe nel Pavillon des Sessions, e nel 2003 ha creato un nuovo dipartimento per la cosiddetta arte «islamica», l’Asia (dall’Afghanistan al Giappone attraverso l’India non musulmana e la Cina) è ancora in gran parte assente. Eppure il Musée Guimet, al quale il Louvre trasferì le sue collezioni di arte asiatica nel 1945, è uno dei principali partner dell’Afm; è addirittura uno dei suoi azionisti.

I limiti di budget e la grande disponibilità di opere d’arte hanno ridimensionato l’ambizione del museo di coprire l’intera estensione spazio-temporale, ma i vincoli di contenuto hanno anche contribuito a definire le tre priorità messe a punto dallo staff curatoriale con De Cars: la cristianità occidentale, il mondo musulmano e l’Asia.

Incrocio di civiltà Nel 2008 Laurence De Cars li definì anche «fili della civiltà». Seguendo questi fili, il mondo islamico si trovò a essere nel pieno dell’«incrocio di civiltà», un’altra espressione all’epoca centrale al progetto. Questo approccio consentiva inoltre di adottare quello «sguardo decentrato» richiesto dalla nuova storia globale e che lo staff francese intendeva adottare. Il resto del mondo, comprese Africa tropicale, America Latina e Oceania, fu così messo in secondo piano, osservato dal punto di vista delle conquiste coloniali, optando nuovamente per un approccio storico all’arte.

Questa narrativa museologica si adattava anche bene, e in parte ne fu ispirata, alla narrativa politica del «dialogo culturale», tanto cara all’allora presidente Jacques Chirac che, tra il 2005 e il 2007, ebbe un ruolo decisivo nel progetto, accolto positivamente dai funzionari che amministravano i musei statali francesi, nonostante la scarsa convinzione iniziale dei loro capocuratori. L’espressione «dialogo culturale» tornò più volte nei discorsi di Chirac sulla politica estera, una reazione allo «scontro di civiltà» rappresentato dall’11 settembre ma anche dall’invasione anglo-americana dell’Iraq. Eppure, secondo il politologo americano Samuel P. Huntington, che diffuse quest’ultima idea, le civiltà in cui si verificavano gli scontri sono proprio i tre blocchi principali che il progetto della Des Cars sperava di mostrare nel loro dialogo attraverso i secoli. Senza sparire del tutto, questo approccio storico all’universalismo fu progressivamente soppiantato da un altro di tipo «antropologico», sostenuto da Charnier dal suo arrivo all’Afm nel 2008, e fu imposto a partire dal 2014, anno in cui la leadership cambiò sia all’Afm sia al Louvre di Parigi, quando ne divenne direttore Jean-Luc Martinez.

Charnier e la Des Cars sono entrambi curatori statali con una formazione nell’ambito della storia dell’arte e dell’archeologia, sebbene da allora i loro studi si siano allontanati: la Des Cars è specializzata in pittura francese della fine del XIX secolo, Charnier in archeologia e Preistoria. La Des Cars è arrivata all’Afm dal Musée d’Orsay nel 2007, mentre Charnier proveniva da due musei etnografici, tra cui il Musée des civilisations de l’Europe et de la Méditérranée (Mucem) di Marsiglia, dove la storia dell’arte lascia il posto all’antropologia. 

Con un approccio antropologico non è più una questione di abbracciare il mondo intero in un sistema di classificazione che è essenzialmente europeo. Il forte legame tra il museo universale e l’Illuminismo è allentato e la Francia e la sua Rivoluzione non sono più i principali punti di riferimento. Ora una cosa diventa universale non perché segue i dettami della ragione umana, come afferma Kant, ma perché trascende i confini culturali ed è comune all’intera umanità; l’universalismo è ciò che è sempre stato, non ciò che sarà, come nel campo della libertà politica e dell’uguaglianza. L’approccio antropologico libera il museo universale dalle «promesse fatte dalla Rivoluzione e dall’impero», per citare Henri Loyrette, e le  sostituisce con un significato già di per sé rivoluzionario. Quando gli esseri umani creano opere d’arte si distinguono, come comunità o come individui. Questa creazione artistica è ricca di somiglianze che riflettono l’universalità degli uomini attraverso il tempo e lo spazio. Questo è il punto di partenza antropologico di Jean-François Charnier, ed è quello che il Louvre Abu Dhabi intende incarnare. Tuttavia, questo approccio non significa immergersi in un mondo di mere forme, recidendo il legame tra conoscenza e museo. Al contrario, e qui risiede la sua grande originalità, non assomiglia a quello che potete aver visto alla Barnes Foundation di Filadelfia dove, visto che hanno tutti delle belle curve, i nudi di Renoir sono esposti accanto a oggetti in ferro medievale che non ispirarono in nessun modo il pittore francese. La filosofia dell’Afm è di fare del Louvre Abu Dhabi un luogo dove si formulano ipotesi e si svolge la ricerca necessaria a verificarle. Non è un palcoscenico per la poesia, per quanto bella, sul quale ballare abbandonandosi. È il museo dell’epoca del dubbio, un’epoca di globalizzazione post Guerra fredda. Ma non eliminerà la presenza della ragione dal museo.
 

Alexandre Kazerouni, 07 dicembre 2016 | © Riproduzione riservata

Come si fa a creare un grande museo nell’età del dubbio | Alexandre Kazerouni

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