Emiliano Rossi
Leggi i suoi articoli Torino. Nell’attuale contesto caratterizzato da una sempre maggiore scarsità di fondi pubblici da destinare al settore culturale, tra i diversi strumenti alternativi di finanziamento acquista rilievo anche in Italia il fenomeno del crowdfunding (letteralmente «finanziamento della folla») che consente la raccolta di fondi presso il pubblico, generalmente attraverso portali web, per la realizzazione di progetti e iniziative culturali o per l’investimento in start up innovative attive nel settore.
Il fenomeno si inserisce nell’ambito della cosiddetta rivoluzione web 2.0, caratterizzata dallo sviluppo della rete in una dimensione sociale e democratica in cui i singoli cessano di essere meri utenti dei servizi offerti e assumono un ruolo sempre più attivo, offrendo contenuti e partecipando a progetti condivisi. Il crowdfunding consente l’incontro fra la domanda di finanziamento dei progetti promossi da enti o imprese e l’offerta dei crowdfunder, ai quali può essere riservata una più o meno rilevante partecipazione, materiale o immateriale, agli esiti delle iniziative.
Le piattaforme di crowdfunding sono generalmente operate da gestori, diversi dai soggetti a cui sono destinati i fondi, i quali prestano i propri servizi gratuitamente o, più spesso, in cambio di una percentuale dei contributi raccolti (generalmente compresa fra il 2,5% e il 15-25% a seconda della tipologia e del rilievo e dimensione dell’offerta). In diversi casi, poi, i gestori delle piattaforme offrono servizi aggiuntivi quali aree riservate di Q&A (domande e risposte), forum di contatto fra donatori e proponenti, tutoring e mentoring, consulenze al fine di promuovere le raccolte.
D’altro canto, diviene sempre più comune il cosiddetto «Do It Yourself» (Diy) crowdfunding (crowdfunding fai da te) organizzato da musei e istituzioni culturali sui propri siti web, o su altri appositamente creati, per la realizzazione di specifici progetti, anche senza l’utilizzo di piattaforme specializzate. Fra i molti esempi, si possono citare la raccolta di fondi da parte del Museo del Louvre nel 2011 per l’acquisto del dipinto «Le Tre Grazie» di Lucas Cranach il Vecchio, la raccolta di Palazzo Madama a Torino nel 2013 per l’acquisto del servizio da tè e caffè di Meissen (cfr. n. 329, mar. ’13, p. 15 e n. 331, mag. ’13, p. 14) la raccolta per finanziare il progetto espositivo «Vice Versa» nel Padiglione Italia della 55ma Biennale di Venezia del 2013, nonché le raccolte del Museo del Cinema di Torino per il restauro di film. E prosegue la raccolta di un milione di euro, entro il 31 gennaio 2015, per l’acquisto da parte del Louvre del cosiddetto Tavolo di Teschen (cfr. n. 347, nov. ’14 p. 6).
Nel settore culturale emergono, in particolare, tre tipologie di crowdfunding distinte in base a ciò che viene riservato al crowdfunder a fronte del finanziamento:
q il cosiddetto donation-based crowdfunding, in cui il crowdfunder effettua una donazione per sostenere una determinata iniziativa senza ricevere nulla in cambio;
q il reward-based crowdfuinding in cui, a fronte del finanziamento, al soggetto contributore viene offerta una ricompensa e/o un pubblico riconoscimento;
q l’equity-based crowdfunding, in cui il crowdfunder investe in titoli di partecipazione in società di capitali, fenomeno che in Italia, primo fra i Paesi europei, ha trovato una specifica regolamentazione con il Dl 18 ottobre 2012, n. 179, convertito nella Legge 17 dicembre 2012, n. 221, il quale, tuttavia, limita la possibilità di utilizzo di tale strumento alle start up innovative.
Donation-based e
reward-based crowdfunding
Il donation-based crowdfunding consiste nella raccolta attraverso un portale web di contributi in denaro per la realizzazione di un progetto, a fronte dei quali non è previsto alcun corrispettivo a favore dei crowdfunder. I contributi raccolti si configurano, quindi, come donazioni. In particolare, in base all’ordinamento italiano, essi si dovranno configurare come donazioni di modico valore, sotto il profilo oggettivo (l’obiettivo valore del bene) e soggettivo (il valore rispetto alle condizioni economiche del donante). Per le altre donazioni, infatti, il Codice civile prescrive la forma dell’atto pubblico a pena di invalidità.
Il reward-based crowdfunding, che costituisce la tipologia oggi più diffusa, si distingue, invece, per la presenza di una ricompensa a favore dei crowdfunder, che può assumere diverse forme. Una prima soluzione è quella in cui ai crowdfunder viene promessa una menzione pubblica del contributo effettuato (ad esempio, la menzione dei soggetti sul sito internet o nelle sale di un museo) o un regalo di modico valore rispetto all’importo donato (ad esempio un gadget realizzato per l’occasione che riproduce in serie un’opera d’arte o un oggetto di design). In questi casi, si ritiene che la menzione e/o il regalo non costituiscano un corrispettivo, per cui non viene meno la natura liberale del contributo. La dazione è, piuttosto, configurabile come donazione modale di modico valore, ovverosia una donazione in cui il soggetto finanziato è gravato dall’onere di menzionare pubblicamente il donante o riconoscergli l’omaggio, cosa che costituisce al massimo una limitazione del beneficio attribuito al destinatario della liberalità. In linea di principio, in caso di inadempimento dell’onere, il donante ha diritto di agire per l’adempimento (sebbene tale possibilità possa apparire in molti casi teorica, visti i valori in gioco normalmente limitati) e, ove espressamente previsto dal regolamento predisposto dagli organizzatori, di agire per la risoluzione della donazione per inadempimento dell’onere e la restituzione della somma.
Una diversa ipotesi è costituita dal cosiddetto «preordine», ovverosia l’offerta al crowdfunder della possibilità di prenotare un esemplare di un bene che verrà realizzato con le somme raccolte, in cambio del versamento (o della promessa di versamento) di una somma pari al prezzo. Questa tipologia di crowdfunding viene spesso utilizzata per finanziare la realizzazione di opere musicali o di film e si configura come una vendita di cosa futura, in cui l’acquisto si perfeziona solo quando la cosa viene ad esistenza.
In generale, si possono configurare due varianti di reward based (così come del donation-based) crowdfunding: il cosiddetto «all or nothing» e il «keep it all». Nella prima ipotesi, che viene utilizzata in particolare laddove occorra un budget minimo al di sotto del quale il progetto risulti irrealizzabile, il regolamento contrattuale predisposto per l’adesione da parte dei crowdfunder prevede che il denaro raccolto sia destinato al finanziamento solo nel caso in cui si raggiunga il plafond prefissato mentre, in caso contrario, sarà restituito. Nel caso del «keep it all», invece, il regolamento prevede che tutte le offerte verranno trattenute e utilizzate senza necessità di raggiungere un plafond.
Al crowdfunding riconducibile alla compravendita di cosa futura, può trovare applicazione la normativa del Codice del Consumo sui contratti stipulati online e a distanza o negoziati fuori dai locali commerciali. In tal caso, il crowdfunder avrà diritto di recedere dal contratto entro il termine di 14 giorni dal momento in cui sarà entrato in possesso del bene realizzato con i fondi raccolti, senza necessità di motivazione. Per di più, ove l’acquirente non venga informato del proprio diritto, il termine sopra indicato per l’esercizio del recesso sarà prolungato di 12 mesi. Dunque, seppure l’ipotesi possa apparire improbabile, l’eventuale esercizio del diritto di recesso su larga scala a fronte del mancato gradimento del bene realizzato e consegnato ai crowdfunder, potrebbe ingenerare seri problemi a carico del soggetto finanziato, il quale, dopo la realizzazione del progetto, potrebbe dover restituire i fondi già utilizzati.
Un’ulteriore forma di reward based crowdunding è costituita dal cosiddetto revenue sharing, ritenuto riconducibile alla disciplina dell’associazione in partecipazione, in cui al crowdfunder è attribuito un diritto, generalmente limitato nel tempo, di partecipare agli utili derivanti da un determinato progetto (o alle relative perdite, seppur nei limiti del contributo versato). In questo caso, dunque, il finanziatore non avrà una partecipazione al capitale della società rappresentata da azioni o quote (ciò che avviene, invece, nell’equity-based crowdfunding) ma un diritto di credito che dovrà trovare compiuta disciplina nel regolamento di adesione previsto dalla piattaforma. Anche questa tipologia di crowdfunding può essere utilizzata nel settore delle produzioni musicali e cinematografiche.
Sotto il profilo fiscale, le varie tipologie di crowdfunding avranno una disciplina diversa. Le erogazioni effettuate a favore di enti pubblici o fondazioni e associazioni riconosciute non a fini di lucro e per finalità di utilità sociale nell’ambito del donation-based crowdfunding e del reward-based crowdfunding riconducibile alla donazione modale, non saranno soggette all’imposta di donazione. Inoltre, qualora le erogazioni siano effettuate per le finalità e con le modalità appositamente previste, i crowdfunder, persone fisiche o giuridiche, potranno eventualmente beneficiare, in particolare, delle deduzioni previste per le erogazioni liberali a favore del settore culturale dal Testo Unico delle Imposte sui Redditi e dal Dl 35/2005, convertito in L. 80/2005 (c.d. «più dai meno versi», che riguarda, in particolare, le Onlus e il Terzo settore, tra cui fondazioni e associazioni riconosciute aventi a oggetto la tutela, promozione e valorizzazione dei beni di interesse culturale).
In linea di principio, le erogazioni liberali effettuate tramite crowdfunding a enti pubblici per manutenzione e restauro di beni culturali, per il sostegno degli istituti di cultura pubblici, delle fondazioni lirico-sinfoniche o dello spettacolo, nei tre periodi di imposta successivi a quello in corso al 31 dicembre 2013 potranno usufruire del credito di imposta previsto dal Dl 83/2014 (ArtBonus), nei limiti percentuali e con le ripartizioni annuali ivi indicati. Lo stesso vale per le erogazioni liberali effettuate per interventi di manutenzione e restauro di beni culturali pubblici, destinate a soggetti concessionari o affidatari dei beni oggetto di tali interventi. Il riferimento è, in particolare, ai soggetti che gestiscono in forma indiretta la valorizzazione dei beni culturali pubblici nel regime di concessione previsto dal Codice dei Beni culturali. In proposito, è interessante osservare come lo stesso Dl 83/2014 abbia previsto che il Ministero dei Beni culturali, nell’ambito di un futuro regolamento di organizzazione, dovrà individuare, senza nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica, apposite strutture dedicate a favorire le liberalità da parte dei privati e la raccolta di fondi tra il pubblico, anche attraverso un apposito portale web. Lo stesso decreto, quindi, riconosce l’importanza dello strumento del crowdfunding per la raccolta di fondi per la tutela e valorizzazione dei beni culturali pubblici, in modo da consentire l’eventuale accesso ai benefici dell’ArtBonus. Nel crowdfunding riconducibile alla vendita di cosa futura, il trattamento fiscale sarà quello proprio della vendita e non saranno possibili deduzioni di imposta o detrazioni per i finanziatori e, nell’ipotesi del revenue sharing, gli utili attribuiti ai crowdfunder non saranno deducibili.
L’equity-based
crowdfunding
La terza forma di crowdfunding che può avere maggiore rilievo nel settore culturale è l’equity-based crowdfunding, nel quale il finanziatore, tramite l’investimento online, acquista un vero e proprio titolo di partecipazione in una società. Quest’ultima tipologia di crowdfunding ha trovato una specifica regolamentazione in Italia, prima fra i Paesi europei, seppur con esclusivo riferimento alla raccolta di capitali per le cosiddette start up innovative, nel Dl 179/2012, convertito in legge 221/2012 e attuato dal Regolamento Consob 18592/2013. Tale limitazione è stata, peraltro, oggetto di critica, in quanto molti non vedono per quale ragione l’accesso alla raccolta di capitale attraverso il crowdfunding non possa essere esteso anche alle società non rientranti nella definizione, piuttosto restrittiva, di start up innovative.
Le start up innovative sono definite come società di capitale con sede principale in Italia e non quotate che abbiano a oggetto lo sviluppo, la produzione e la commercializzazione di beni o servizi ad alto valore tecnologico e, tra l’altro, siano costituite da non più di 48 mesi, abbiano un valore della produzione non superiore a 5 milioni di euro, non distribuiscano utili e, alternativamente, raggiungano (a) livelli minimi di spese in ricerca e sviluppo, oppure (b) impieghino dipendenti o collaboratori per almeno un terzo con specifici titoli di studio e/o esperienze di ricerca certificate, o (c) possiedano, a vario titolo, almeno una privativa industriale relativa al proprio ambito di operatività o diritti relativi a un programma di elaborazione.
La legge prevede espressamente che, tra le start up innovative, sono comprese anche le start up a vocazione sociale, ovverosia le società con le caratteristiche sopra descritte che siano operative in ambiti di utilità sociale quali, ad esempio, i settori della valorizzazione del patrimonio culturale e della ricerca ed erogazione di servizi culturali. In questo contesto si contano anche quelle operanti, ad esempio, nei settori restauro e conservazione del patrimonio culturale mobile e immobile, dei servizi IT alla cultura, della creatività e del design. Dal primo gennaio 2015, sono start up innovative anche le società indicate che promuovano l’offerta turistica nazionale attraverso l’uso di tecnologie e lo sviluppo di software originali.
In generale, la normativa del 2012 prevede una politica di incentivo a sostegno delle start up innovative, viste come strumento strategico per favorire lo sviluppo e l’innovazione. Gli incentivi, tra l’altro, passano attraverso (i) alcune deroghe al diritto societario; (ii) la non applicabilità della disciplina del fallimento; (iii) diverse deroghe, anche fiscali, alla disciplina lavoristica; e (iv) la possibilità di offrire al pubblico, oltre alle azioni, anche le quote di start up costituite in forma di srl, con la previsione di significativi incentivi fiscali all’investimento. Inoltre, come anticipato, l’offerta al pubblico di azioni o quote di start up innovative può avvenire con la raccolta di capitali di rischio tramite portali online (c.d. equity-based crowdfunding). L’attività di gestione dei portali è riservata: (i) alle imprese di investimento (Sim) e alle banche autorizzate a prestare servizi di investimento, o (ii) agli altri soggetti autorizzati e vigilati dalla Consob e iscritti in un apposito registro tenuto dalla stessa (questi ultimi soggetti devono, però, trasmettere gli ordini ricevuti a banche e imprese di investimento, che raccoglieranno anche le somme versate dai crowdfunder). I portali devono fornire una serie di informazioni relative al portale stesso, alle caratteristiche standard degli investimenti in start up e alle singole offerte. Una particolare tutela è prevista per gli investitori non professionali per assicurare la comprensione delle caratteristiche e rischi dell’investimento. Per favorire lo sviluppo del crowdfunding, è prevista l’esenzione dei portali gestiti da soggetti diversi da banche e Sim dalla disciplina sui servizi di investimento «MiFID» per gli investimenti che siano al di sotto di un certa soglia (persone fisiche: 500 € per singolo ordine e 1.000 € per ordini complessivi annuali; persone giuridiche: 5.000 € per singolo ordine e 10.000 € per ordini complessivi annuali). Le offerte online di quote o azioni di start up innovative non possono superare la soglia di 5 milioni di euro. Inoltre, le offerte possono andare a buon fine solo se almeno il 5% del loro ammontare è sottoscritto da investitori professionali, fondazioni bancarie o incubatori di start up innovative. Alcuni ritengono che quest’ultima regola, senza apportare sostanziali tutele, rischi di pregiudicare il buon esito di molte offerte, laddove la condizione non si verifichi.
Le offerte devono anche riconoscere all’investitore: (i) un diritto di recesso entro 7 giorni dalla adesione, e (ii) un ulteriore diritto di revoca esercitabile in 7 giorni ove, prima della chiusura dell’offerta, siano portati a conoscenza degli investitori fatti rilevanti prima non noti che possano influire sulla decisione di investimento, in entrambi i casi con restituzione del denaro investito. Inoltre, le start up devono pubblicare sui portali, oltre al proprio statuto, anche gli eventuali patti parasociali e devono prevedere, per il caso di trasferimento a terzi del controllo sulla società per il periodo in cui la società resti una start up, e comunque per tre anni dalla conclusione dell’offerta, un diritto di recesso o di covendita a favore dei crowdfunder.
L’equity-based crowdfunding può essere considerato un investimento particolarmente rischioso, sia per il concreto rischio di insuccesso delle start up sia per il fatto che, per almeno 4 anni dall’iscrizione nel registro, esse non possono distribuire dividendi e i loro titoli non possono essere negoziati sui mercati regolamentati. A controbilanciare tali svantaggi, sono previsti alcuni vantaggi fiscali per gli investitori, che hanno trovato attuazione nel 2014. In particolare, a certe condizioni, è prevista per gli anni dal 2013 al 2016 una detrazione dall’imposta sul reddito delle persone fisiche pari al 19% della somma investita nel capitale di una o più start up innovative, aumentata al 25% per l’investimento in start up innovative a vocazione sociale (attive, ad esempio, in ambito culturale). L’investimento detraibile non può eccedere i 500mila € per ciascun periodo di imposta e deve essere mantenuto per almeno due anni. L’ammontare non detraibile nel periodo di imposta può essere detratto nei successivi periodi di imposta, non oltre il terzo. Quanto alle imprese soggette a Ires che investano in start up, è prevista per gli stessi periodi di imposta una deduzione dal reddito imponibile pari al 20% della somma investita, aumentata al 27% per quelle a vocazione sociale. In questo caso, l’investimento non può eccedere 1,8 milioni di euro per ciascun periodo di imposta e deve essere mantenuto per almeno due anni.
Allo stato, sebbene un certo numero di piattaforme di equity crowdfunding si sia iscritto nell’apposito registro istituito da Consob, risulta che solo tre offerte si siano concluse positivamente (nessuna in l’ambito culturale). Ciò è sicuramente imputabile alla novità dell’istituto e alla scarsa familiarità con lo stesso degli investitori non professionali. Occorrerà del tempo per vedere se anche in Italia questa nuova modalità di finanziamento delle nuove imprese avrà seguito, in particolare, presso la cosiddetta generazione web 2.0 che sta in questi anni entrando nell’età del lavoro e dell’investimento.

Uno dei primi casi internazionali, di gran successo: «Le Tre Grazie» di Lucas Cranach il Vecchio, acquistate dal Louvre nel 2011
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