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Le opere di Gu Wenda e Shao Fan all’interno dello spazio C.AR.M.E. Foto: Petrò Gilberti

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Le opere di Gu Wenda e Shao Fan all’interno dello spazio C.AR.M.E. Foto: Petrò Gilberti

Dall’«invenzione» dell’arte contemporanea cinese a oggi. Che cosa è cambiato?

Allo Spazio C.AR.M.E., grazie a 30 opere e due collezionisti, Uli Sigg e Massimo Minini, si rivelano le mille espressioni della Cina post-olimpica

Sara Bortoletto

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Dal 1993, quando Achille Bonito Oliva ospitò per la prima volta una collettiva di artisti alla Biennale di Venezia, l’arte contemporanea cinese divenne imprescindibile tra i collezionisti. Poi il mercato inquinò velocemente il nuovo moto creativo con speculazioni e produzioni mediocri. E adesso? Che cosa si può dire dell’arte contemporanea cinese di oggi?

La mostra «China Now», presentata allo Spazio C.AR.M.E. di Brescia fino al 3 settembre, lo racconta attraverso alcune opere provenienti dalla famosa collezione di Uli Sigg, l’ex ambasciatore svizzero capace di raggruppare le tante sensibilità artistiche dagli anni ’80 in poi. Una selezione non scontata che si distanzia da ciò che viene proposto nelle grandi retrospettive: il Pop Politico o il Realismo Cinico ad esempio, che hanno manipolato la scena dei primi decenni, sono citati infatti solo nelle opere-copia di Gabriele di Matteo.

In questa mostra si è avvolti dalle mille espressioni della Cina post-olimpica. Con circa 30 opere, Uli Sigg e Massimo Minini danno voce alla vastità stilistica e alle tematiche dell’arte contemporanea cinese. Installazione, video, fotografia, pittura e calligrafia raccontano con consapevolezza le sue evoluzioni, rimaste fedeli al tradizionale rapporto spirituale con la creazione artistica e plasmate dal suo inevitabile incontro con l’arte occidentale. Ciò che si osserva è un equilibrio. Una perfetta sintesi. Una totale appropriazione di nuovi media atta a veicolare le grandi questioni globali.

Nell’installazione immersiva di Tsang Kin-Wah, «The Second Seal-Every being that opposes progress should be food for you», la tensione emotiva trasmessa dal flusso rosso di parole fluttuanti che sgorgano e inondano la sala con frasi di violenza, sofferenza, motti motivazionali e di propaganda, ci pone di fronte all’inevitabile condizione umana imprigionata nel ciclo continuo della storia.

La serie di Gu Changwei riproduce macroscopicamente la banconota cinese per antonomasia, i 100 yuan. Sgranando l’immagine e soffermandosi sui dettagli di Mao Zedong e delle telecamere in Piazza Tienanmen, l’artista crea delle composizioni astratte, o delle escoriazioni, che decostruiscono il significato di denaro celando il suo legame con importanti simboli della Cina moderna. L’arte concettuale di He Xiangyu propone 127 tonnellate di Coca Cola solidificata. Oltre alla critica del consumo di massa introdotta dall’Occidente, Coca Cola Project nasce dalla collaborazione di alcuni lavoratori migranti con l’artista stesso. Il processo di produzione diventa agente in grado di superare barriere sociali nette, permettendo anche nuove dinamiche relazionali.

Non manca la tradizione pittorica e calligrafica. È lì: evoluta, riadattata, ma forte del suo ruolo storico all’interno di una cultura che è orgogliosa delle proprie origini. Gu Wenda, tra i principali esponenti del movimento avanguardista del 1985, ha dato vita a uno stile iconoclasta di cui la mostra presenta un esempio: Ai Yishu. La sua formazione a pittura ad inchiostro, unita alla crisi culturale post-rivoluzione, induce la sua ricerca verso le potenzialità della lingua scritta. Qui, sin dal 1990, decostruisce gli ideogrammi cinesi ricomponendoli con caratteri inventati, privandoli quindi di significato.

Anche il più giovane Shao Fan riscopre l’antica pratica di conoscere i maestri del passato per far evolvere il proprio stile. Le sue opere, realizzate con finissime pennellate o punti («cun») che danno consistenza alla superficie dell’elemento raffigurato, si allontanano dall’atteggiamento decostruttivo e sovversivo di Gu, per recuperare una propria espressività, in cui lo stile non è semplice forma, ma esprime un continuo conflitto tra realtà e immaginazione, incubo e sogno.
Il rapporto con la cultura occidentale ricorda il ritmo del mare, passando dalle burrasche interpretative al mareggio accomodante.

Inizia con le missioni di conversione dei gesuiti alla fine del XVI secolo. Si scontra con la Guerra dell’Oppio (1840-42). Prosegue con il Movimento del 4 maggio (1911), quando Shanghai era la Parigi d’Oriente. Si strumentalizza durante la Guerra sino-giapponese (1937-45). Infine riemerge con il gruppo Wu Ming, The stars e la nuova ondata avanguardista durante le politiche di apertura di Deng Xiaoping (1978-89). Un dialogo complesso portatore di traumi che, seppure non coscientemente, trasuda dalle opere esposte.

La mostra esprime tutto questo con una linea curatoriale non etnocentrica. Riformula una visione dell’arte cinese che tiene conto dei processi di circolazione di massa, riconoscendo al contempo che, per arrivare a questa espressività, lo sviluppo dell’arte cinese è stato lungo e faticoso.
 

«The Second Seal - Every being that opposes progress should be food for you» (2009), di Tsang Kin-Wah. Foto: Petrò Gilberti

Sara Bortoletto, 11 agosto 2023 | © Riproduzione riservata

Dall’«invenzione» dell’arte contemporanea cinese a oggi. Che cosa è cambiato? | Sara Bortoletto

Dall’«invenzione» dell’arte contemporanea cinese a oggi. Che cosa è cambiato? | Sara Bortoletto