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Do Ho Suh, «Nests», 2024 (particolare)

Courtesy the artist and Lehmann Maupin New York, Seoul and London. Photo: Jeon Taeg Su. © Do Ho Suh

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Do Ho Suh, «Nests», 2024 (particolare)

Courtesy the artist and Lehmann Maupin New York, Seoul and London. Photo: Jeon Taeg Su. © Do Ho Suh

Dentro le case «trasportabili» di Do Ho Suh

Alla Tate Modern di Londra, la nuova personale dell’artista multidisciplinare coreano cattura l’essenza permeabile, psicologica, ed emotiva degli spazi che circoscrivono la nostra esistenza

Per Do Ho Suh (Seul, 1962), artista multidisciplinare coreano, riprodurre spazi architettonici rifacendosi al potere scultoreo del tessuto e della carta è un «atto di commemorazione» nei confronti del ruolo da essi adempiuto nel corso della sua vita. Figlio dell’acclamato pittore Se-ok Suh (1929-2020) e Min-Za Chung, impegnata nella conservazione della cultura del paese, Do Ho Suh cresce consapevole di quanto ciascuna abitazione non rappresenti soltanto un cumulo di cemento, lamiera, e mattoni progettato nel minimo dei dettagli, ma anche il sorgere, lo svilupparsi e persino il volgere al termine di una storia, o più di una. A insegnarglielo è la sua casa d’infanzia, composta da cinque edifici storici e contemporanei reinventati dal padre, di cui uno ispirato alle stanze e alla libreria del palazzo regale di King Sunjo (Seul, 1790-1834), 23mo monarca della dinastia Joseon.

Laureatosi in pittura orientale presso la Seoul National University nel 1987, Suh prosegue i suoi studi alla Rhode Island School of Design, nel nord-est degli Stati Uniti, trasferendosi dapprima a Providence e poi a New York all’inizio degli anni Novanta. È a partire dal «taglio del cordone ombellicale», motivo per cui ricostruisce la propria casa lontano dalla sua terra natale, che la sua carriera prende forma; e da questa esperienza che «The Genesis Exhibition: Do Ho Suh: Walk the House», la nuova personale dedicata alla sua produzione presso la Tate Modern di Londra (dal primo maggio al 19 ottobre), ottiene la sua raison d’être.

In un percorso coinvolgente composto di installazioni in scala 1:1, sculture, video, e disegni ricamati, Do Ho Suh si interroga «sull’enigma del concetto di casa, quello d’identità e la maniera in cui abitiamo il mondo circostante e ci spostiamo al suo interno», raccontano gli organizzatori. Ad animare la mostra è l’idea che, proprio come le case tradizionali coreane, le hanok, che possono essere «disassemblate, trasportate, e riassemblate in un altro luogo», l’abitare sia una realtà molto meno immutabile di quanto non si pensi, ma una maniera d’essere che, in quanto tale, ci segue ovunque andiamo

Guardando alle sue esperienze tra Seul, New York e Londra, tre città che l’hanno accolto nel corso degli anni, le ultime opere site specific di Suh, svelate qui per la prima volta, sono esplorazioni architettoniche monumentali che non catturano la natura «intangibile, metaforica, e psicologica» dello spazio. Tra queste spiccano «Nest/s» (2024), labirinto caleidoscopico, trasparente, e coloratissimo che evidenzia la «porosità» dei confini domestici invitando gli spettatori a farsi strada al suo interno, e «Perfect Home: London, Horsham, New York, Berlin, Providence, Seoul» (2024), scheletro dell’abitazione corrente di Suh a Londra, portato in vita da una costellazione di maniglie, interruttori della luce, e prese per l’elettricità in tinte sature che, simboleggiando le tracce lasciate da coloro che si sono mossi in esso, ritrae «l’ambiente come un organismo vivente» in continuo mutamento.

Do Ho Suh, «Nests», 2024. Courtesy the artist and Lehmann Maupin New York, Seoul and London. Photo: Jeon Taeg Su. © Do Ho Suh

Gilda Bruno, 25 aprile 2025 | © Riproduzione riservata

Dentro le case «trasportabili» di Do Ho Suh | Gilda Bruno

Dentro le case «trasportabili» di Do Ho Suh | Gilda Bruno