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Una veduta della mostra «Kaari Upson: Dollhouse-A Retrospective» al Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk, 2025

Photo: Louisiana Museum of Modern Art / Kim Hansen

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Una veduta della mostra «Kaari Upson: Dollhouse-A Retrospective» al Louisiana Museum of Modern Art, Humlebæk, 2025

Photo: Louisiana Museum of Modern Art / Kim Hansen

Di corpi, case e rovine: il mondo intimo e grottesco di Kaari Upson

Il danese Louisiana Museum of Modern Art presenta la prima retrospettiva sull’artista americana che in poco più di quindici anni è riuscita a creare un vero e proprio universo artistico fatto di umanità e inquietudine

Cosa rivelano le tracce degli oggetti, dei corpi, della memoria? Per capirlo l’artista americana Kaari Upson (1970-2021) ha condotto una ricerca intima e feroce, ai limiti dell’ossessivo, realizzando un corpus di opere ibrido ma coeso, fatto di rovine, frammenti replicati, sdoppiati, trasformati e distorti, allo stesso tempo segni e simboli della nostra identità e dei nostri traumi. Ora una prima grande retrospettiva offre una panoramica accurata e toccante sull’opera di un’artista di cui, nonostante svariati traguardi artistici tra cui la partecipazione alla Biennale di Venezia, si è parlato troppo poco. 
Con «Kaari Upson: Dollhouse-A Retrospective» (fino al 26 ottobre), il Louisiana Museum di Humlebæk, poco lontano da Copnaghen, ambisce (riuscendoci) a posizionare Upson nel pantheon della nuova generazione di classici americani. La mostra sarà poi esposta anche al Kunsthalle Mannheim in Germania e al Masi Lugano in Svizzera.

L’opera di Upson è concentrata, non solo perché racchiusa in un lasso di tempo relativamente breve, ma anche per l’intensità con cui si presenta. La presenza di pochi personaggi ma ricorrenti, ed una certa sistematicità nell’approccio artistico contribuiscono ulteriormente alla coesione narrativa del suo lavoro. Tra i protagonisti di questa esplorazione che ha le caratteristiche dell’epica, figura il personaggio di Larry, a cui è dedicata l’opera più conosciuta di Upson. Iniziato come progetto di tesi magistrale presso la CalArts, «The Larry Project» (2005-12) è la ricostruzione della vita di un vicino di casa dei genitori dell’artista a San Bernardino, dove Upson è nata e cresciuta, sulla base di una serie di effetti personali trovati tra le rovine della sua casa abbandonata e parzialmente distrutta in uno dei numerosi roghi che divorano la California. Come indizi in un’indagine, un’infinità di frammenti della vita di questo sconosciuto (Larry è un nome di fantasia), fan di Hugh Hefner e di Playboy, vengono interpretati in svariati media artistici unendo realtà e finzione. Tra le opere più imponenti in mostra spicca «Recollection Hysteria» (2012), una riproduzione in latex di una stanza di Larry in scala dove la frase «I hate life» campeggia su una parete.

Una veduta di «There is no such thing as outside», 2017-19, di Kaari Upson nella mostra «Kaari Upson: Dollhouse-A Retrospective» al Louisiana Museum, Humlebæk, 2025. Photo: Louisiana Museum of Modern Art, Kim Hansen

La vita di Larry, in parte ricostruita e in parte immaginata, ci parla di identità, di squallore, di fantasie e mascolinità grottesca, diventando il mezzo per una critica culturale acuta e struggente. San Bernardino, città desolata che è tristemente periferia di sé stessa, non fa solo da sfondo alla narrazione fatta da Upson ma ne è parte integrante. È il centro gravitazionale a cui l’artista continua inevitabilmente a tornare. L’indagine sugli spazi domestici porta Upson a fare calchi di mobili abbandonati per strada, soprattutto materassi, divani e poltrone, replicandoli sotto forma di sculture colorate in modo irrealistico. Questi oggetti sformati e macchiati rivelano le tracce, come calchi a loro volta, di chi li ha utilizzati, ma la trasformazione di colori e consistenze li rende oggetti antropomorfi e ambigui. Nel replicare relitti domestici, i confini tra privato e pubblico, ma anche tra oggetto e spazio, sfumano. Siamo noi a plasmare ciò che ci circonda o viceversa? C’è qui una delicatezza radicale nel presentare una narrativa domestica frammentata e distorta ma anche una precisa ricerca formale. 

Il curatore della mostra Anders Kold sottolinea l’approccio pittorico dell’artista che caratterizza la sua pratica in modo trasversale. L’opera di Upson si fa ancora più intima e profonda quando volge lo sguardo ai propri ricordi e alla propria storia familiare. Si va da una casa di bambola ingrandita tanto da diventare inquietante («There is no such thing as outside», 2017-19) a opere che indagano i traumi generazionali a partire dal passato della madre tedesca emigrata negli Stati Uniti. Tra le opere più toccanti spicca «Mother’s Legs» (2018-19): al centro della stanza una foresta di gambe fuori misura pende dal soffitto. Quella della foresta non è del tutto una metafora, infatti l’artista ha realizzato dei calchi degli alberi che circondavano la sua casa d’infanzia «aumentandoli» poi con l’impronta delle proprie ginocchia e dipingendoli con toni del rosa che virano sul giallo e sul blu. Alla tenerezza della prospettiva di un bambino si aggiunge così l’angoscia data dai colori di un corpo tumefatto. Su una delle pareti che racchiudono «Mother’s Legs» è esposta per la prima volta «Untitled (Foot Face)» (2020-21), l’ultima serie di opere prodotta da Upson in un momento in cui, poco dopo la morte della madre per cancro, aveva scoperto di essere malata lei stessa. L’idea iniziale di questa serie di disegni era quella di documentare un anno intero realizzando ogni giorno, come una sorta di diario, sempre la stessa immagine surreale: il piede della madre di Upson sovrapposto al viso dell’artista. Upson ha realizzato tuttavia solo 140 disegni, lasciando la serie tristemente interrotta a seguito della sua morte per cancro all'età di 51 anni. I corpi che altrove vediamo sdoppiati e trasformati, in quest’ultima serie sembrano progressivamente dissolversi rievocando l’inesorabile disfarsi dell'identità; della composizione iniziale restano in ultimo solo gli occhi. 

«Ciò che mi ha sempre colpito è la forza del suo processo e della sua metodologia, racconta il curatore. Upson era sempre disposta a trovare modi radicali per rispondere alle eterne domande sull’infanzia, sulla famiglia e sul contesto culturale. Con questo ben chiaro in mente, e urgentemente spronata dalle sue condizioni di salute, ha manifestato tutto ciò in un modo che molti artisti avrebbero impiegato una vita intera a fare». Kold conobbe personalmente Upson nel 2019 in un momento in cui nessuno poteva immaginare che l’artista se ne sarebbe andata così presto nel contesto alienante di una pandemia globale. Questo contatto personale con l’artista si percepisce in modo impalpabile come un ulteriore strato di intensità emotiva aggiunto all’opera già così potente di Upson, riconfermando una delle qualità principali di quest’artista che aveva molte cose da dire e poco tempo, ossia la capacità di partire dai propri spazi, dai propri traumi, dalla propria storia per parlare in fondo di quelli di tutti noi.

Una veduta di «Mother’s Legs», 2018-19, di Kaari Upson nella mostra «Kaari Upson: Dollhouse-A Retrospective» al Louisiana Museum, Humlebæk, 2025. Photo: Louisiana Museum of Modern Art, Kim Hansen

Benedetta Ricci, 30 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Di corpi, case e rovine: il mondo intimo e grottesco di Kaari Upson | Benedetta Ricci

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