Robert Bevan
Leggi i suoi articoliIl mese scorso il mondo ha assistito incredulo, a bocca aperta, alla notizia diffusa dal governo iracheno che l’Isis aveva raso al suolo in Iraq l’antico sito assiro di Nimrud e i resti di Hatra, risalenti a duemila anni fa. La distruzione non è alimentata soltanto dalla dottrina religiosa e dalla propaganda, ma parrebbe rientrare nei tentativi portati avanti con determinazione dai terroristi di cancellare la storia dei gruppi etnici nei territori da loro controllati.
L’azione è stata descritta dall’Unesco come un crimine di guerra. In un comunicato, la direttrice generale dell’agenzia delle Nazioni Unite, Irina Bokova, ha affermato: «Niente è al sicuro dalla pulizia culturale in corso in [Iraq]: essa prende di mira le vite umane, le minoranze, ed è caratterizzata dalla sistematica distruzione del patrimonio culturale dell’umanità». Ma alla luce dell’attuale legislazione internazionale, le perdite culturali, per quanto mirate e devastanti, non sono considerate genocidio di per sé, anche se fanno parte di un palese tentativo di cancellare la storia e l’identità di un intero popolo. Ora aumentano pressioni perché questo ambito legale venga modificato in modo da riflettere le realtà del conflitto contemporaneo e per dare il giusto peso alle sofferenze causate a un popolo quando viene attaccato il suo patrimonio culturale.
«Corpo e anima vanno di pari passo»
«Che lo si voglia ammettere o no, corpo e anima vanno di pari passo ed è assolutamente superficiale... cercare di dissociare l’uno dall’altra», ha affermato il giudice Antônio Augusto Cançado Trindade nella sua incendiaria opinione dissidente sulla sentenza di un processo per genocidio in febbraio. Le parole del pubblico ministero brasiliano, che associano la distruzione spirituale e fisica dei popoli e delle loro culture, sono state scritte in risposta al rigetto di un caso da parte della Corte Internazionale di Giustizia (Cig), il tribunale delle Nazioni Unite all’Aia. La Croazia aveva accusato la Serbia di avere commesso genocidio durante la Guerra di Indipendenza Croata, tra 1991 e il 1995, con relative controaccuse di Belgrado. Le richieste dei due Paesi sono state respinte, soprattutto perché la Serbia, al tempo in cui si è verificata la maggior parte dei crimini, non compariva tra i firmatari della Convenzione sul Genocidio del 1948, quindi le uccisioni, le torture, gli stupri di massa, gli incendi di abitazioni e la distruzione di monumenti culturali non avevano rilevanza alla luce di questo strumento giuridico.
Trindade sostiene che la Cig rifiuti giustizia richiedendo un livello troppo gravoso di prove per dimostrare l’intenzione di commettere un genocidio, l’intenzione essendo la prova chiave del crimine dei crimini. La sua opinione scritta specifica quanto egli ritiene essere una prova trascurata: il deliberato disegno nella Croazia occupata dai serbi dove, in città come Vukovar, le strutture culturali croate erano costantemente prese di mira allo stesso tempo in cui i civili croati venivano assassinati e scacciati. Questa è una prova, ha detto, della volontà di sradicare un popolo.
L’approccio di Trindade amplifica le precedenti sentenze in cause portate di fronte al Tribunale Criminale Internazionale per l’ex Jugoslavia (Tcij), istruite per verificare crimini di guerra; in particolare, la sentenza del 2001 sul massacro di Srebrenica del 1995 in Bosnia, accettò che la distruzione della moschea non fosse di per sé genocidio, ma potrebbe esserne la prova. A questa sentenza hanno fatto seguito altre condanne per genocidio da parte del Tcij, sia nei confronti di serbi sia di croati, nelle quali la distruzione di moschee è stata citata con successo come prova.
Ciò che qui si osserva è uno sforzo deciso volto a spostare il tema del destino della cultura in scenari di guerra dalla sua attuale posizione marginale per renderlo centrale nella questione dei diritti umani. Se l’identità culturale di un gruppo viene sradicata, ciò avrà un risultato finale simile allo sradicamento fisico di quello stesso gruppo; esso cessa di esistere come entità culturale distinta.
Protezione inadeguata
I critici di Trindade sostengono che, se i diritti morali sono dalla sua parte, egli starebbe cercando di aggirare i contenuti della legislazione internazionale, che non riconosce la distruzione della cultura come componente del genocidio. Rimane tuttavia il problema che la legislazione internazionale e le sue istituzioni non sono adeguatamente attrezzate per proteggere la cultura. L’attuale contesto legale è stato in larga parte adottato dopo la seconda guerra mondiale, quando i combattenti erano Stati nazionali, non terroristi, e non tiene conto degli attori «diversi dagli Stati» né delle «guerre asimmetriche» di oggi in Stati falliti dove la cultura è un obiettivo specifico, non un danno collaterale.
Lemkin trascurato
Nella sua opinione dissidente, Trindade ha citato Raphael Lemkin, l’ebreo polacco che sfuggì ai nazisti e fu tra gli autori della Convenzione sul Genocidio del 1948. Lemkin era convinto che il genocidio fosse composto di barbarie (attacchi al popolo) e vandalismo (attacchi alle espressioni del genio del popolo). Tuttavia, così come adottata dalle Nazioni Unite (Onu), la convenzione ha omesso il concetto di Lemkin di genocidio culturale. Prevalsero le ostilità diplomatiche all’epoca della Guerra Fredda e la paura da parte dei Governi del nuovo mondo che le loro popolazioni indigene (ed ex schiave) potessero applicare la legge contro i loro stessi Governi: «Io lo difesi con successo in due stesure, ricordò in seguito Lemkin nella sua autobiografia. [Il vandalismo] significava la distruzione del modello culturale di un gruppo, come la lingua, le tradizioni, i monumenti, gli archivi, le librerie, le chiese. In poche parole: i santuari dell’anima di una nazione».
Comprendendo come la Realpolitik avrebbe bloccato le clausole sul vandalismo, Lemkin decise «a malincuore» di non insistere sulla questione, augurandosi che fosse ripresa in un secondo tempo, in un protocollo addizionale alla convenzione. Così non è stato, e le conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il giudice Trindade auspica che la sua opinione crei un precedente o un’«autorità persuasiva».
Anziché riconoscere il destino del patrimonio culturale come inscindibilmente legato al genocidio culturale, l’Onu ha adottato la Convenzione dell’Aia del 1954 finalizzata alla protezione del patrimonio culturale in caso di conflitti armati. Nei successivi protocolli che aggiornano la convenzione, si suppone che le Nazioni firmatarie debbano trattare gli attori «diversi dagli Stati» presenti sul proprio territorio come criminali comuni, ma è immaginabile che questo possa avvenire in Iraq? È già stato abbastanza difficile ottenere condanne per la distruzione sistematica di edifici religiosi e di musei in Stati sufficientemente organizzati come quelli emersi dall’ex Jugoslavia.
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Ai sensi della Convenzione dell’Aia, le azioni dell’Isis in quanto attore diverso dagli Stati costituirebbero un crimine di guerra. Considerato che l’Iraq non ha firmato questo protocollo, rimane però la questione se le distruzioni di siti culturali operate dal gruppo siano considerate allo stesso modo da ogni altra legge vigente. Ufficialmente, la distruzione culturale non è genocidio e, sebbene tale distruzione sia considerata un crimine di guerra secondo lo Statuto di Roma del 2002, che ha istituito la Corte penale internazionale, l’Iraq non l’ha firmato. In effetti, come gli Stati Uniti, l’Iraq è attivamente ostile all’idea della Corte e a quella che i suoi generali e i suoi uomini politici possano essere chiamati a rispondere in quel foro.
L’Onu ha appena pubblicato un rapporto nel quale si sostiene che l’Isis può essere ritenuto responsabile di genocidio e di crimini di guerra contro la minoranza irachena degli Yazidi ma, se il rapporto giunge alla conclusione che distruggere i monumenti costituisce un crimine di guerra, non ci sono riferimenti agli attacchi alla cultura come prova di genocidio, e il rapporto non lascia spazi per considerare la natura o l’estensione della distruzione. Se, come suggerisce Jan Hladík, esperto in leggi culturali internazionali che lavora per l’Unesco, l’Iraq è legato dalle consuetudini internazionali, la legislazione creata dalla pratica forense nel tempo, resta ancora da vedere.
Crimine o no, è difficile immaginare che la comunità internazionale possa intervenire militarmente per salvare la cultura. Lo fa a malapena per salvare la gente. Il Governo francese, è vero, nel 2012 può avere pensato ai monumenti e ai manoscritti distrutti dai ribelli islamici quando è intervenuto in Mali, ma altrove siti millenari continueranno a essere spianati dai bulldozer e sculture inestimabili a essere fatte a pezzi.
Un barlume di speranza
C’è un barlume di speranza. Anche in febbraio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato la risoluzione 2199, che autorizza l’uso della forza per l’attuazione di un blocco commerciale nei confronti dell’Isis e del Fronte al-Nusrah (al Qaeda in Siria) sotto l’egida dell’Onu. Con i fanatici che finanziano le loro attività con la vendita di antichità saccheggiate e di petrolio, nei paragrafi operativi della risoluzione è stato conferito al patrimonio culturale lo stesso rango delle altre questioni di «pace e sicurezza».
Non è esattamente come se le misure di Lemkin sul vandalismo fossero diventate un esplicito protocollo integrativo alla convenzione sul genocidio, o se le leggi sulla protezione culturale si applicassero direttamente agli attori diversi dagli Stati, anziché essere responsabilità dei Governi nazionali, ma è un inizio.
Come la condanna di Al Capone per evasione fiscale, alla fine potrebbe essere la via del denaro, e non quella del gangsterismo, a portare a un’azione efficace.
• L’autore è membro del comitato per la preparazione ai rischi dell’International Council on Monuments and Sites
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