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Una vista delle rovine della Grande Moschea Omari, nota anche come Grande Moschea di Gaza, il 27 gennaio 2024, dopo i bombardamenti dell’esercito israeliano

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Una vista delle rovine della Grande Moschea Omari, nota anche come Grande Moschea di Gaza, il 27 gennaio 2024, dopo i bombardamenti dell’esercito israeliano

Perché la distruzione culturale è una tattica militare così pericolosa

Un rapporto «epocale» mostra come gli attacchi al patrimonio culturale possano causare «danni psicosociali, economici e di altro tipo». Ma le leggi devono andare oltre

Robert Bevan

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All’inizio di quest’anno, Human Rights Watch (Hrw) e la International Human Rights Clinic della Harvard Law School hanno pubblicato un rapporto già considerato storico sull’impatto delle armi pesanti sui civili e sul patrimonio culturale. «Destroying Cultural Heritage: Explosive Weapons’ Effects in Armed Conflict and Measures to Strengthen Protection» (Distruggere il patrimonio culturale: gli effetti delle armi esplosive nei conflitti armati e le misure per rafforzare la protezione) mostra come, oltre a causare vittime tra i civili, queste armi infliggano indirettamente «danni psicosociali, economici e di altro tipo».

Questo rapporto segna un cambiamento di passo: le organizzazioni che si occupano di patrimonio culturale hanno sempre più invocato un approccio alla protezione culturale basato sui «diritti». Al contrario, i settori umanitario e dei diritti umani sono stati restii ad affrontare la questione della cultura materiale. Quando, ad esempio, nel 2016 è stato annunciato il pionieristico procedimento giudiziario a carico di Ahmad Al Faqi Al Mahdi presso la Corte penale internazionale dell’Aia per la distruzione dei monumenti di Timbuctù, Amnesty International ha sottolineato la necessità di perseguire i crimini di guerra non culturali in Mali. La tempistica ha sminuito il peso della prima condanna della Corte penale internazionale per crimini contro la cultura. Le sollecitazioni dei gruppi che si occupano di patrimonio culturale alle Organizzazioni non governative (Ong) che si occupano di diritti umani hanno ricevuto risposte stantie, in cui la cultura era vista come secondaria invece di essere ineluttabilmente intrecciata con l’identità e l’appartenenza.

Un’eccezione è rappresentata dal memorandum d’intesa 2020 della Croce Rossa con Blue Shield International (l’Ong che si occupa del patrimonio culturale in caso di conflitto), che si impegna a lavorare più strettamente sulla protezione culturale. Purtroppo i cambiamenti di personale e la mancanza di fondi non hanno portato ad alcun progresso sostanziale.

Scritto da Bonnie Docherty, docente presso la Human Rights Clinic di Harvard e consulente senior della Arms Division di Human Rights Watch, il nuovo rapporto si basa sulla «Dichiarazione politica sul rafforzamento della protezione dei civili dalle conseguenze umanitarie derivanti dall'uso di armi esplosive in aree popolate» del novembre 2022. Questa dichiarazione non vincolante sottolinea le conseguenze umanitarie degli attacchi ed è stata approvata da 83 Stati a Dublino. Si impegna a limitare le armi esplosive quando si prevede che possano danneggiare i civili e gli oggetti civili.

Il rapporto di Human Rights Watch si concentra sulla guerra in Ucraina e sugli attacchi ai siti culturali in Yemen e altrove. È stato redatto in gran parte prima della devastazione di gran parte di Gaza, ma fa riferimento a perdite culturali fondamentali come la storica Grande Moschea di Omari e la Chiesa di San Porfirio, attaccate dall’esercito israeliano mentre civili palestinesi si rifugiavano all’interno, e la distruzione del porto ellenistico di Anthedon, vicino a Gaza e dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. La sua raccomandazione principale è quella di amplificare la dichiarazione di Dublino del 2022 e le maggiori protezioni culturali che potrebbe offrire. Docherty sostiene che, evidenziando il «danno prevedibile» causato dalle munizioni con «effetti ad ampio raggio», si rafforza il diritto umanitario, legando il destino della cultura a quello dei civili. Sostiene inoltre che il requisito della dichiarazione di «prevenire il più possibile i danni ai civili» restringe la famigerata deroga della Convenzione dell’Aia del 1954, che consente la distruzione culturale quando è ritenuta una «necessità militare».

Tutto ciò è positivo, ma dobbiamo andare oltre. Il genocidio culturale non è di per sé parte del Diritto internazionale perché, tragicamente, le clausole sul «vandalismo» della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio (1948) furono escluse dalla bozza finale per volere delle potenze coloniali. Tuttavia, i processi successivi hanno confermato che un modello di distruzione culturale può essere di per sé una prova che aiuta a dimostrare il genocidio, compresa l’«intenzionalità». Da allora, la raccolta delle prove si è spesso concentrata sulla definizione di tali modelli.

Il Sudafrica cita la distruzione intenzionale dei siti culturali palestinesi sia nel suo caso di accusa per genocidio contro Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia sia nel suo deferimento alla Corte penale internazionale dell’Aia, sostenendo che ciò dimostra un attacco alla vita dei palestinesi. La distruzione di scuole, biblioteche, università, monumenti, luoghi di culto storici ecc potrebbe rientrare nella clausola C della Convenzione sul genocidio: «infliggere deliberatamente al gruppo condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica, totale o parziale». Lo stesso potrebbe valere per l’aggressione della Russia in Ucraina.

È quindi l’«urbicidio» visto a Gaza, in Ucraina e altrove (la distruzione urbana indiscriminata del patrimonio e della cultura) piuttosto che il bersaglio specifico di singoli siti a dimostrare l’intenzionalità? Sebbene le prove di un attacco mirato rimangano importanti, non devono farci dimenticare il quadro più ampio della devastazione selvaggia come tattica di distruzione dell’identità. Sia gli attacchi mirati che quelli indiscriminati alla cultura possono dimostrare l’intento. Ecco perché la Dichiarazione politica del 2022 è così importante e il rapporto di Human Rights Watch così tempestivo.

Robert Bevan, 26 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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