Lorenza Mochi Onori
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«Giulio Carlo Argan diceva che uno storico dell’arte poteva diventare un buon manager, viceversa è quasi impossibile. Un manager molto difficilmente potrà diventare uno studioso competente. Il percorso universitario di uno storico dell’arte o di un archeologo era, e dovrebbe essere, questo: una laurea quinquennale nella materia specifica, con tesi in tema, e un periodo di perfezionamento universitario (specializzazione o dottorato che dir si voglia) di almeno due anni. Altri percorsi non danno certezze di qualificazione attendibile. Purtroppo la mancanza di un albo professionale che tuteli le specifiche competenze degli storici dell’arte e degli archeologi non esiste, a beneficio della categoria e soprattutto del pubblico. Un tempo faceva certezza il superamento dei concorsi ministeriali, in genere severissimi, e potrà esser così se continueranno a essere con tema specifico scritto ed esame orale, con commissioni competenti. Tuttavia la professionalità degli archeologi e soprattutto degli storici è attualmente svilita.
Lo sbocco principale a cui dovrebbe portare la professione di storico dell’arte dovrebbe essere la curatela di un settore museale e, principalmente, la direzione di un museo. E così è stato fino a una decina di anni fa, poi i politici si sono accorti che la direzione di un museo era un incarico socialmente prestigioso. Era quindi «spendibile» e non poteva essere sottratto a un eventuale utilizzo di «compenso» per intellettuali integrati nel sistema (a questo scopo la competenza nella materia e l’esame rigoroso degli studi intrapresi e delle pubblicazioni scientifiche specifiche era di intralcio). Valorizzare vuol dire conoscere, non può prescindere dallo studiare ciò che si valorizza. Quale valorizzazione migliore di quella che, attraverso studi ed esami, riporta un’opera data a «scuola di» a un’attribuzione certa, magari a un grande autore, e a un «valore», non solo venale ma emozionale e di attrazione molto maggiore? Conoscere e far conoscere: questo è lo scopo dello studio e della ricerca. E nella storia dell’arte non è diverso: non si può far conoscere senza conoscere, senza studio, ricerca, pubblicazioni, cataloghi scientifici. Senza questo presupposto non si possono fare neanche la divulgazione e la didattica, essenziali in un museo.
Se ne deduce che la competenza in materia è il requisito assolutamente essenziale per la scelta di un direttore di museo. Purtroppo è il concetto di competenza che oggi è in discussione e, come già detto, la mancanza di un ordine professionale e di un curriculum di studi codificato per ottenere la qualifica non protegge né le competenze né la professionalità dello storico dell’arte. È stata la mancanza di competenza che ha fatto fare errori metodologici come quello di separare nettamente i musei italiani dal territorio. Alcuni possono sopportare questo distacco: Brera, ad esempio, nata con il concetto di museo centrale del Regno d’Italia napoleonico, è un museo non incentrato essenzialmente sul rapporto con il territorio. Non così i musei nati dal collezionismo delle tante case regnanti dei piccoli Stati preunitari, ma anche le gallerie fidecommissarie delle famiglie papali romane, un unicum nella storia del collezionismo della Roma dei papi (tranne la Barberini, smembrata nel 1934).
Tuttavia se questa scelta antistorica potrebbe essere tollerata nel caso delle pinacoteche, è del tutto assurda nel caso dei musei archeologici, che vivono e si alimentano degli scavi sul territorio. Non si può procedere con il patrimonio artistico italiano con gli stessi criteri usati da altri Stati che non hanno un patrimonio così distribuito sul territorio come il nostro. Basti pensare che a Roma per vedere i Caravaggio più belli devi andare prima a Santa Maria del Popolo, a San Luigi dei Francesi, a Sant’Agostino, poi alla Galleria Borghese o a Palazzo Barberini. Così come nei più sperduti borghi del Centro, del Nord e del Sud Italia puoi trovare opere stupende di grandi maestri conservate nelle chiese o nelle raccolte locali, delle quali gli abitanti sono gelosi custodi. Di questo è necessario tener conto nel pensare ai nostri musei. Giuseppe Bottai (ministro dell’Educazione nazionale nel 1936-43, Ndr), quando creò il sistema delle Soprintendenze territoriali convocò in un convegno tutti i competenti in materia per definirle e per organizzare il sistema museale. Ne seguì la fondamentale legge del 1939, la 1089, che è ancora base della tutela nel nostro Paese. Non è quindi un discorso di parte politica ma solo di rispetto della conoscenza scientifica e della tanto bistrattata competenza».