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«La pesca dei Coralli» di Jacopo Zucchi, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica (particolare)

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«La pesca dei Coralli» di Jacopo Zucchi, Roma, Galleria Nazionale d’arte antica (particolare)

Due secoli di bellezza femminile dipinta

In un libro edito da Mondadori Francesca Cappelletti compie un viaggio nella ritrattistica tra Cinque e Seicento, quando le nobildonne entrarono, consapevolmente, al centro dell’attenzione pubblica

Anna Lo Bianco

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Quando nel 1581 il filosofo francese Michel de Montaigne giunge a Roma resta sorpreso per la vivacità della città. Roma si preparava infatti a vivere quella stagione unica tra la fine del Cinquecento e il primo decennio del Seicento, introdotto da un grandioso Giubileo. La città appare nel massimo fervore creativo per la grande attività culturale animata dalla rivoluzionaria presenza di artisti come Caravaggio, Annibale Carracci, Rubens e di sofisticati mecenati e eruditi.

Il grande filosofo si meraviglia della intensa vita mondana, della quantità di feste, della ricchezza di carrozze e della presenza di tanti eleganti nobili e prelati, come non aveva eguali in altre città visitate. Lo colpisce in particolar modo la bellezza delle donne, esibita senza maschere, nelle tante occasioni pubbliche con leggerezza e grazia ma con vesti sontuose e complicate acconciature arricchite da gioielli. Montaigne nell’aprile 1581 visita il palazzo Cesarini e si sofferma in particolare sui ritratti delle più belle gentildonne viventi. È la testimonianza di come nei palazzi romani si andasse consolidando la consuetudine di dedicare una stanza, o meglio un camerino, appartato dai saloni dedicati alla grande maniera storica, a questo tema intriso di sottile erotismo e perciò destinato a pochi privilegiati visitatori. 

Qui compare una delle protagoniste di questo viaggio nella bellezza femminile, Clelia Farnese, figlia naturale di Alessandro Farnese, alla quale Francesca Cappelletti dedica pagine affascinanti quanto il personaggio. Montaigne l’aveva ammirata come moglie di Giovan Giorgio Cesarini per il suo aspetto ma anche per la sua amabilità. Altri la ricordano come «la più bella donna che si trovasse al suo tempo». Noi, come ci mostra l’autrice, possiamo incontrarla in un famoso e raffinatissimo ritratto dipinto da Jacopo Zucchi, conservato a Palazzo Barberini, in cui ci cattura l’ovale perfetto del volto, la carnagione di alabastro, lo sguardo languido. Sempre più acclamata, Clelia viene poi raffigurata dallo stesso Zucchi nelle sembianze di Anfitrite nella «Pesca dei coralli», nuda tra i flutti, dal bel volto perfettamente riconoscibile. L’autrice considera questa trasposizione davvero rilevante nel percorso della storia della rappresentazione della bellezza femminile: la donna reale si sovrappone infatti alla divinità mitologica offrendo un’immagine destinata a diffondersi nei cabinet dei palazzi aristocratici, dove trovava posto il sottile potere erotico dei dipinti. Nei camerini al secondo piano della Villa Pinciana Borghese le fonti ricordano ben cinquantadue ritratti di dame romane, purtroppo oggi non rintracciabili. A introdurre, non solo idealmente, questa collezione vi sono le Veneri attribuite a Tiziano. Ecco che il legame tra Venere e comunque il mito e le dame più belle ci appare tangibile. Come scrive la Cappelletti, Venere si pone a guardia dei ritratti delle Belle e a loro protezione.

Bellezza e arte si coniugano nelle figure di protagoniste della pittura: Lavinia Fontana e Artemisia Gentileschi, la prima giunta a Roma nel 1604, la seconda, romana, educata all’arte dal padre Orazio. Scrive l’autrice come Lavinia fosse un personaggio quasi leggendario, lodata dal Vasari e ritratta da Van Dyck. Il suo «Autoritratto», conservato al Museo di Capodimonte, parla per lei: alla bellezza unisce le doti di un’educazione colta e l’atteggiamento riflessivo autoimposto ispira così rispetto. Un omaggio sottile glielo tributa Giulio Mancini, commentatore attento e insostituibile delle vicende artistiche del momento. Scrive infatti che non meraviglia la sua bravura nel dipingere cose belle poiché dipingeva «se stessa essendo lei bellissima». La storia di Artemisia, ormai così nota e ben descritta nei documenti del processo per stupro subito da parte di Agostino Tassi, è tutta una vicenda di autoriabilitazione attraverso la pittura di cui diviene maestra soprattutto nei nudi femminili. Nelle sue tele si susseguono Giuditte, Susanne, Cleopatre tutte diverse e tutte uguali a lei. Come per Lavinia è l’«Autoritratto come Allegoria della pittura», al Kensington Palace di Londra, a parlare. La straordinaria fusione tra ritratto naturale e allegoria astratta è frutto della creatività di Artemisia che rivela la sua raggiunta consapevolezza di essere una donna pittrice.

Poco più avanti, a metà Seicento, la situazione cambia e ancora una volta le protagoniste di queste novità sono gentildonne, in particolare Maria Mancini giunta a Roma per sposare Lorenzo Onofrio Colonna e le sorelle tra cui Ortensia, di una «bellezza perfetta». Sono loro a animare la vita mondana della città che ne esaltava il fascino. Jacob Ferdinand Voet, artista fiammingo, si specializzerà proprio nel ritratto femminile offrendoci decine di esemplari di grande suggestione. Ritrae infatti Maria Mancini come Armida, l’eroina del Tasso, in un grande dipinto a figura intera che si trova a Palazzo Colonna. Sontuoso e denso di dettagli seducenti, il quadro celebra la bellezza davvero unica di Maria, l’incarnato roseo e la vitalità della figura. Nel ritratto con la sorella Ortensia «Maria Mancini predice il futuro alla sorella Ortensia» della Royal Collection di Londra, la bellezza di entrambe è esaltata da Voet nei volti quasi infantili in primo piano e nel morbido erotismo delle scollature. E proprio a Maria Mancini si deve l’ispirazione di una serie di ritratti famosa, la «Serie delle Belle», in parte oggi visibile a Palazzo Chigi di Ariccia, ma che si diffonde nei palazzi aristocratici. Tutto era nato, secondo la Cappelletti, dal sodalizio con Flavio Chigi e dal loro incontro nel 1668 in un banchetto cui partecipano tutte le dame. Ora il ritratto è visto quasi come un elemento documentario, una sorta di catalogazione sociale. Non più pose diverse e trasformazioni in personaggi mitici, le nobildonne sono raffigurate tutte nello stesso modo: frontalmente, a mezzo busto ma senza che appaiano le mani, con abiti e acconciature in tutto simili. Si vuole stabilire un canone che va al di là delle attitudini più personali, a rappresentare una galleria della aristocrazia femminile. Al potere degli uomini si unisce per le donne quello del rango che va ad arricchire la bellezza naturale. Significava essere presenti in tutte le corti, imporre la propria immagine sociale che dietro la bellezza esprimeva intelligenza e consapevolezza.

Le belle. Ritratti femminili nelle stanze del potere
di Francesca Cappelletti, 180 pp., ill., Milano, Mondadori, 2024, € 21

La copertina del volume

Anna Lo Bianco, 16 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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