«Biloxi, Mississippi 2005» di Mitch Epstein

© Mitch Epstein

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«Biloxi, Mississippi 2005» di Mitch Epstein

© Mitch Epstein

Epstein: «Fotografare alberi secolari mi ha reso più umile»

Il fotografo statunitense racconta i retroscena del suo lavoro e della mostra allestita alle Gallerie d’Italia-Torino

Prosegue alle Gallerie d’Italia-Torino, fino al 2 marzo, «Mitch Epstein. American Nature», la più importante retrospettiva dedicata al grande fotografo americano (classe 1952) realizzata in Italia. Curata da Brian Wallis, l’esposizione presenta immagini tratte da tre diverse serie realizzate a partire dal 2003 («American Power», «Property Rights» e «Old Growth») e due installazioni video («Darius Kinsey. Clear Cut» e «Forest Waves»). 

La mostra è una riflessione attenta su alcuni dei grandi temi della cultura americana contemporanea: il cambiamento climatico, il ruolo della politica e dell’industria nello sfruttamento del territorio e sui diritti delle popolazioni indigene e delle minoranze etniche. Una celebrazione della bellezza della natura, del tempo lento, dei suoi cicli e della sua forza immensa. Una riflessione sul rapporto di forza imposto dall’uomo sulla fragilità del territorio e delle minoranze. Un invito ad approfondire tematiche in cui siamo tutti coinvolti: prima fra tutte quella del cambiamento climatico globale. Un conflitto è in atto tra la società americana e la natura incontaminata e selvaggia. Occorre ritrovare un senso di connessione alla terra e di appartenenza al proprio territorio.

Abbiamo parlato con Mitch Epstein nella sua casa-studio di Manhattan, dove vive e lavora dal 1986.

Inizierei dal titolo della mostra, «American Nature». Gli americani hanno un rapporto diverso con la natura rispetto agli europei. Gli spazi sono diversi per immensità e forza del paesaggio, e i fenomeni naturali sono più potenti e talvolta devastanti. Che cos’è per lei la «natura americana»?
Quando penso alla natura americana penso a due cose simultaneamente. In primo luogo, a come era il mondo naturale in questo Paese prima della colonizzazione; in secondo luogo, rifletto sulla natura intrinseca dell’essere americano, sulla natura psicologica di essere nato qui. Questi due concetti sono intrecciati, perché il nostro rapporto con il mondo naturale è molto definito da chi siamo come società e cultura. Usare il termine «americano» accanto a qualcosa, soprattutto in questo momento storico, è carico di significato; in questa mostra mi è sembrato molto appropriato. Ed è questo ciò che sono: sono americano e la mia sensibilità e le mie sensazioni come artista vengono definite da questo.

In «Old Growth» gli alberi sono rappresentati come persone. Si percepisce la loro forza e la loro libertà. Sembra che ci siano due tempi diversi: un tempo della nostra vita e un tempo della natura. Qual è il suo approccio a questa forza?
Non sono uno specialista di foreste. Non si tratta di uno studio tipologico; il mio processo è stato da subito molto intuitivo. All’inizio pensavo di fotografare la foresta più come un paesaggio e non come un ritratto, ma una volta che si gira la macchina fotografica e si inizia a lavorare con un formato verticale, si entra nella prospettiva del ritratto. Guardando più da vicino, sono stato attratto dagli alberi nella loro individualità. Gli alberi hanno un enorme impatto spirituale, ma non li antropomorfizzo. Mi concentro su di loro sia direttamente che metaforicamente. Una delle motivazioni iniziali di questo progetto è stata quella di scoprire che cosa c’era qui prima della colonizzazione, prima degli insediamenti europei in Nord America. Pensando a questo, è stato facile vedere la natura nella sua sofisticata semplicità, come un mondo in cui, lasciati a sé stessi, gli alberi si rigenerano, si moltiplicano, coesistono in modo interconnesso. Con il passare del tempo, con la maturità, il mio modo di guardare avanti cambia e riconsidero il mio rapporto con il mondo naturale. Inevitabilmente, penso di più alla mia mortalità. Fotografare alberi secolari mi ha ridimensionato e reso più umile.

«Amos Coal Power Plant, Raymond, West Virginia 2004» di Mitch Epstein. © Mitch Epstein

L’installazione dedicata a Darius Kinsey e la musica che l’accompagna sono emotivamente molto coinvolgenti. Perché ha deciso di includere queste vecchie immagini?
Ho scoperto le immagini di Darius Kinsey anni fa grazie al curatore del MoMA John Szarkowski. Negli anni Settanta ha iniziato a guardare all’arte della fotografia in modo più pluralistico, interessandosi alla fotografia applicata (oggi la chiamiamo commerciale) come le commissioni di Kinsey per l’industria del legname. Stavo guardando a molti fotografi americani del XIX secolo per trarne ispirazione, ma le immagini di Kinsey si distinguevano per la loro padronanza formale e la loro forza emotiva. Sono straordinarie e persuasive. Per quanto riguarda la natura americana, all’inizio del XX secolo si credeva che le risorse fossero inesauribili. Nelle foto di Kinsey, gli operai fanno il loro lavoro per portare a casa abbastanza soldi per sfamare le loro famiglie. La maggior parte, se non tutti, erano ignari di quanto il loro taglio di alberi sarebbe stato dannoso per il futuro. Il brano musicale che accompagna questo pezzo è un lamento. Alle Gallerie d’Italia c’è un contrasto sorprendente e commovente tra le immagini storiche e la stanza a specchi che avvolge lo spettatore.

In «American Power» c’è una storia dietro ogni fotografia ed è evidente una lunga ricerca di informazioni. Come si svolge la sua ricerca quando decide di scattare?
La ricerca è uno strumento che non si traduce necessariamente nella realizzazione di un’immagine. Con «American Power» ho cercato regioni ricche di produzione di energia elettrica che potessero essere accessibili a me come fotografo. Le prime immagini che ho realizzato sono state commissionate dal «New York Times» per immortalare la città deserta di Cheshire, Ohio, in West Virginia. Poi ho portato il progetto in tutto il Paese. Per esempio, in West Virginia, ho tracciato un’area nel raggio di 200 miglia dalle centrali elettriche a carbone e ho cercato di accedere alle miniere di carbone, ma era quasi impossibile, e così ho cercato prospettive e soggetti differenti; alla fine, un luogo interessante non porta necessariamente a una fotografia interessante, dipende da molti fattori. Quando arrivo in un sito, mi approccio con la mente aperta; anche se ho trovato ritagli di giornale durante le mie ricerche, cerco di vedere il luogo in modo nuovo, come se non l’avessi mai visto prima. La ricerca preliminare è una risorsa, un modo per acquisire conoscenze, dare una direzione, ma forse anche un modo di limitare le possibilità per non essere sopraffatto. Una delle mie sfide in questi progetti molto ambiziosi è che possono andare in tante direzioni, e a volte questo può essere controproducente.

Il suo lavoro si adatta molto bene allo spazio di Gallerie d’Italia-Torino. Com’è stata per lei l’esperienza di questa mostra?
Una delle cose più importanti per me come artista è l’attraversamento dei confini e la capacità del mio lavoro di oltrepassare le frontiere. Il team di Gallerie d’Italia ha fatto di tutto per rendere «American Nature» una mostra che potesse spingere i visitatori a fermarsi, a riflettere e dedicare tempo all’esplorazione dell’opera. Ci siamo spinti tutti a immaginare il museo in modo diverso da com’era prima, e a trovare nuovi modi per presentare un lavoro formalmente complesso. Le teche mostrano il processo del mio lavoro dietro le quinte. Il curatore Brian Wallis ha fatto un grande uso dello spazio espositivo. Per dare a ogni grande fotografia un momento di contemplazione, non abbiamo affollato le pareti. Sono felice che un gran numero di persone stia visitando la mostra, e che queste persone non siano necessariamente esperte di fotografia. Mi gratifica il fatto che l’opera possa parlare a pubblici diversi, dal mondo dell’arte concettuale e formale alle persone che scoprono l’arte della fotografia per la prima volta. Le Gallerie hanno uno straordinario programma educativo: ho visto immagini di studenti, bambini molto piccoli e adolescenti che si sono avvicinati al mio lavoro e questo mi rende molto felice.

Una veduta della mostra «Mitch Epstein. American Nature». Foto: Andrea Guermani

Chiara Massimello, 14 gennaio 2025 | © Riproduzione riservata

Epstein: «Fotografare alberi secolari mi ha reso più umile» | Chiara Massimello

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