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Eugenio Tibaldi, «BENU»

Photo: Lorenzo Morandi

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Eugenio Tibaldi, «BENU»

Photo: Lorenzo Morandi

Eugenio Tibaldi consegna due enormi fenici al più grande istituto penitenziario femminile d’Europa

L’installazione «Benu» è stata inaugurata nella Casa Circondariale Femminile «Germana Stefanini» di Rebibbia, a Roma, visibile anche dall’esterno

Samantha De Martin

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«Sono dovuta diventare cenere per riuscire a essere una fenice. E in questo percorso di consapevolezza ho capito che potevo rinascere. L’arte ha svolto una funzione liberatoria e il mio grazie va a Eugenio il genio»: sono le parole di Sonia, una delle detenute della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia «Germana Stefanini», a Roma, nella giornata in cui il progetto «Benu», l’installazione site specific e permanente di Eugenio Tibaldi, consegna due enormi fenici al più grande istituto penitenziario femminile d’Europa. Promosso dalla Fondazione Severino e dalla Fondazione Pastificio Cerere, realizzato in collaborazione con Intesa Sanpaolo, con il patrocinio del Dicastero per la Cultura e l’Educazione della Santa Sede e del Ministero della Giustizia, il progetto curato da Marcello Smarrelli rientra tra le iniziative promosse dalle due fondazioni per portare l’arte contemporanea all’interno degli istituti penitenziari. Nell’inaugurare l’opera, ieri mattina, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella aveva ringraziato Tibaldi per essere stato «veicolo e strumento dei sentimenti, delle sensibilità e degli spunti artistici delle donne di Rebibbia».

Da questa notte le due creature «rock», che svettano su aste di oltre otto metri all’interno del perimetro carcerario, sono visibili dalle stanze di pernottamento delle detenute, dagli uffici del personale, dagli edifici di Casale di San Basilio e da chiunque passeggi all’esterno del carcere. Assomigliano a un ponte di luce acceso da battiti, gambe che pedalano, a unire la vita che anima il carcere con quella che scorre fuori. Perché le due fenici che sbucano dai muri della Casa Circondariale Femminile di Rebibbia hanno bisogno della forza delle donne detenute per brillare. L’idea di installare cyclette negli spazi comuni del carcere, collegate ad accumulatori di energia, è nata dall’esigenza delle detenute di avere a disposizione attrezzi con cui allenarsi. Grazie al lavoro fisico di quante decidono di pedalare viene accumulata energia che, al tramonto, accende le sculture, collegandone la visibilità alla volontà delle detenute stesse.

Come ha sottolineato nel suo intervento la direttrice della Casa circondariale Nadia Fontana, «Benu» offre anche l’occasione per parlare delle donne, il 4% della popolazione carceraria. «Attraverso l’opera, spiega Tibaldi, ho voluto annullare la distanza tra noi e loro, agganciare lo sguardo di chi sta fuori per far capire come al di là di un muro grigio c’è umanità. È il frutto di un lavoro importante sull’accettazione, sulla consapevolezza e conoscenza di loro stesse». Iniziato a settembre 2024, «Benu» è il risultato di un percorso creativo partecipativo svoltosi attraverso laboratori dove il disegno diventa linguaggio universale capace di esprimere emozioni e abbattere barriere. Come spiega Smarrelli, «si tratta di un’opera partecipata che attinge dalle narrazioni più intime e personali delle singole donne». Ma Benu è anche il nome attribuito dagli antichi egizi a una creatura mitologica consacrata a Ra, l’airone dai colori sgargianti, assimilato alla fenice, divenuto, per i greci prima e per i cristiani poi, il simbolo della rinascita.

«Non è stato facile descrivere su un foglio bianco il nostro migliore pregio e il nostro peggior difetto nell’immagine della fenice», confessa Alessia, a proposito della richiesta rivolta da Tibaldi alle detenute. Le due fenici hanno ali di lame («pensate non per volare via, ma per difendersi»), ma anche di piume, la testa di drago e la lingua di fuoco, una coda di serpente e un’altra che ricorda l’onda del mare, dove la maternità, racchiusa in un seno di donna, non si dissolve ma, anche tra le insidie del fuoco, resiste. Alessia ha trasformato la sua fenice in un simbolo di protezione. L’ha disegnata pensando ai suoi nipoti. L’arte, ammette, le ha regalato un senso di apertura visiva, quello stacco mentale che le ha fatto immaginare un nuovo futuro possibile. Un’altra detenuta ha scelto di rappresentare la fenice con i pregi della figlia. E tutte insieme queste visioni, raccolte da Tibaldi, sono confluite in una sorta di autoritratto collettivo.

Questo lavoro corale, che, come ha ribadito Eleonora Di Benedetto della Fondazione Severino, «ha avvicinato realtà diverse grazie alla potenza dell’arte», è stato abbracciato da Intesa Sanpaolo sin da quando era ancora un’idea progettuale. «Benu, ha detto Paolo Bonassi, Chief Social Impact Officer Intesa Sanpaolo, è la testimonianza concreta della fiducia che riponiamo nella persona e nella sua capacità di migliorarsi. Lavorare per il reinserimento significa investire nella capacità di ricominciare, recuperare legami, futuro e dignità». Perché in fondo, in questo progetto, a uscirne arricchito è soprattutto chi viene dal mondo di fuori. Le due fenici annunciano una storia di riscatto universalmente possibile. C’è ancora troppo sole per vederle splendere, ma, come sottolinea Paola Severino, presidente della Fondazione omonima, ci ricordano che la luce può nascere anche dal mondo dentro, da un angolo sospeso, fuori dal tempo.

Eugenio Tibaldi, «Banu». Photo: Lorenzo Morandi

Samantha De Martin, 11 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Eugenio Tibaldi consegna due enormi fenici al più grande istituto penitenziario femminile d’Europa | Samantha De Martin

Eugenio Tibaldi consegna due enormi fenici al più grande istituto penitenziario femminile d’Europa | Samantha De Martin