Francesco Maria Orsolini
Leggi i suoi articoliÈ da poco conclusa la grande retrospettiva milanese dedicata alla pittura di Giorgio Morandi a Palazzo Reale, mentre sono ancora in corso le due mostre promosse dalla Regione Marche per il 60mo della morte di Luigi Bartolini, una alla Pinacoteca di Macerata, dedicata alla pittura, e l’altra alla Sala Castellare del Palazzo Ducale di Urbino, concernente l’incisione. Pur del tutto casuale, la concomitanza ha costituito l’occasione assai propizia per un’osservazione comparata dei due grandi artisti. L’antitesi nicciana di apollineo e dionisiaco si è dimostrata la chiave di lettura più indicata per confrontare le opere e le tracce esistenziali di due vite parallele così emblematiche del Novecento italiano.
Da un lato il «monaco Morandi», come ebbe a indicarlo Roberto Longhi, con lo sguardo fisso nella e dalla sua dimora di via Fondazza, che inverte la volontà d’arte degli impressionisti, immedesimandosi nella purezza contemplativa della coscienza e togliendo ogni ragion d’essere allo sguardo dell’occhio innocente. Sul versante opposto il «brigante gentile delle Muse» o l’«anarchico celestiale», come lo stesso Luigi Bartolini amava definirsi, viandante inquieto e irrequieto nella Natura, insaziabile raccoglitore dei frutti che la Terra madre gli dispensa in quella sua area d’intersezione e d’interscambio con l’operare umano che è la campagna italiana, ritagliata dal corso dei fiumi e della tradizione storica.
Della visione, Morandi indaga il suo sistema, che trascende il dato d’esperienza, alla ricerca incessante della sua intima architettura, attraverso la quale scruta come stanno le cose del mondo, scegliendone a caso qualche esemplare. Si avvicina così tanto alla pura idea dell’essenziale, da sfiorare l’astrazione e l’astrattismo. Come documenta Maria Cristina Bandera nel catalogo della mostra milanese, infastidito dall’accostamento a Mondrian, proposto dal curatore americano del MoMA Alfred Barr, poi ripreso anche da Pallucchini e Argan, Morandi rispose con la frase divenuta famosa «Non vi è nulla di più astratto del reale».
Invece, lo sguardo di Bartolini è nutrito dal desiderio e dall’Eros, da un entrare in contatto con le cose del mondo apprensivo, agito dal pathos, ed è sempre uno sguardo memore, filtrato dall’evocazione, indistinguibile dal vissuto, anche mitizzato, del suo oggetto, caso emblematico le donne Nàiadi che lavano alle fonti, appena fuori le mura dei borghi. Morandi è Piero della Francesca, prima ancora di Cézanne, Bartolini è il Ghirlandaio degli affreschi di Santa Maria Novella, della portatrice nelle cui vesti fluttuanti Aby Warburg legge la vita pulsante e la Pathosformel di una ninfa greca.
È soprattutto nei paesaggi che emerge quanto davvero le vite di Morandi e Bartolini siano state parallele, senz’alcun punto possibile di convergenza. Quelli del bolognese severi e «inameni», per definizione longhiana, sempre visti da un diaframma, finestra o cannocchiale che sia, comunque connaturati al motivo della lontananza. Quelli del marchigiano visti sempre come luoghi a cui si è arrivati in cammino, luoghi raggiunti e dei quali ci si trova a far parte, spesso circondati da siepi e da rovi spinosi che lasciano graffi negli occhi, gli stessi che segnano le lastre delle sue acqueforti.
Vite parallele le loro, ma Morandi e Bartolini si conoscevano bene e pure si stimavano reciprocamente soprattutto come incisori, almeno fino al 1933, quando il carteggio iniziato nel 1929 s’interruppe bruscamente, si vedrà perché. Purtroppo, nonostante siano passati quasi vent’anni da quando Federica Di Castro ne lamentò i vari impedimenti all’analisi critica, il carteggio rimane ancora oggi da conoscere e da pubblicare nella sua organicità.
Nel 1932 i due maestri si dividono il primo premio ex aequo alla mostra dell’incisione italiana di Firenze e poco dopo Morandi rimane irretito dalla fitta rete di posizioni ostili a Luigi Bartolini, tra cui quelle di Ungaretti e Cardarelli, che era stata ordita nel milieu culturale italiano, spesso in risposta alle sue proverbiali prese di posizioni polemiche, espresse con crudezza e talvolta condite dagli insulti, che spesso richiesero pubbliche scuse o l’aiuto di avvocati. È quasi certo che l’interruzione del carteggio con Morandi sia da correlare agli eventi rovinosi che interessarono il maestro marchigiano nel 1933, davvero il suo annus horribilis, nel quale entrò in rotta di collisione con alcuni esponenti di primo piano del regime fascista, come Giuseppe Bottai e, soprattutto, nel quale divenne prima un sorvegliato speciale, poi un confinato politico, dopo che il regime, revisionandone sistematicamente la corrispondenza in cerca di prove per dichiararlo pericoloso sovversivo, scoprì il carteggio con Lionello Venturi, fuoriuscito politico a Parigi.
Due documenti del Prefetto di Bologna, rinvenuti all’Archivio di Stato di Ancona (Fondo Questura Serie Politici, b. 11a) dimostrano la possibile associazione tra Bartolini e Morandi al vaglio della censura del regime fascista, proprio per evitare la quale Morandi deve aver deciso di troncare bruscamente il rapporto epistolare con il suo corrispondente. Entrambi le missive sono in «raccomandata riservatissima» indirizzate al Prefetto di Ancona, la prima del 10 giugno 1933, in risposta ad una richiesta d’informazioni di quest’ultimo in merito ai contatti, emersi nella «revisione» della corrispondenza di Bartolini, con esponenti di «Giustizia e libertà», tra cui un tal Bruno Romani, e con tal «Morandi, di cui pure è cenno nella lettera costà revisionata, diretta al Prof. Bartolini, identificato per Morandi Giorgio fu Andrea e Maccaferri Maria, nato il 20. 7. 1890 a Bologna, qui domiciliato in Via Fondazza 36, insegnante di disegno. Il Morandi è immune da precedenti penali e politici in questi atti; sul conto di lui riservomi ulteriori informazioni che ho disposto».
Nella seconda missiva del 27 giugno 1933, il Prefetto di Bologna scrive: «…comunico che il Prof. Morandi Giorgio…qui residente, insegnante di disegno, risulta di buona condotta morale e gode buona reputazione. Il prof Morandi non si occupa di politica ed è ritenuto favorevole al Regime».
Di tutt’altro tenore le considerazioni su Bartolini, che nel 1925 non aveva firmato il manifesto degli intellettuali fascisti, espresse dal Capo della Polizia Politica, Ministero dell’Interno, nella riservatissima raccomandata dell’8 maggio 1933 e indirizzata al Prefetto di Ancona, con cui si richiedono copie delle lettere inviate «dal Bartolini al Prof. Lionello Venturi e revisionate da codesta Prefettura (…) Comunicasi che il Prof. Venturi, già insegnante di storia dell’arte presso la R. Università di Torino e dichiarato decaduto dall’insegnamento per essersi rifiutato di prestare il giuramento secondo la nuova formula, svolge a Parigi, ove attualmente si trova, attività antifascista ed è in relazione cogli elementi più in vista della concentrazione, fra i quali Carlo Rosselli, che è l’esponente massimo del movimento “giustizia e libertà”. È necessario pertanto che sia continuato con ogni impegno il controllo della corrispondenza diretta al Bartolini, proveniente dall’estero, come dall’interno, tenendo informato questo ministero di ogni emergenza».
Che cosa aveva scritto Bartolini a Venturi di così allarmante per il regime fascista nella lettera del 6 febbraio 1933? Lo rivela la trascrizione revisionata dalla Questura di Ancona, anche questa agli atti dell’Archivio di Stato della stessa città. In premessa e riferendosi ad una missiva precedente, Bartolini scrive a Venturi che «la censura legge le nostre lettere», dimostrando la piena consapevolezza che quanto avrebbe affermato a seguire sarebbe stato accertato e valutato dal regime, senza preoccuparsi in alcun modo delle conseguenze, visto che poi scrive «io ormai non ho più paura di nulla e tanto meno di morire».
Il primo contenuto importante della lettera dal punto di vista storico e culturale è la rivendicazione della libertà di stampa, «io ho una collezione di lettere di direttori di riviste e di giornali i quali mi pongono sull’avviso che se seguito a scrivere come scrivo, finisco in galera (…) ma continuo a scrivere, domandando di punto in bianco, in un articolo che sembrava un cespuglio di rose, oggi la libertà di stampa, domani la libertà di culto, dopodomani la limitazione della proprietà eppoi il divorzio etc. (…) certo è che la tirannide qui ha reso gli uomini dotti a triplice chiusura ed apertura. Non si respira. Da un lato la tirannide fa male all’intelligenza dei suoi soggetti, ma dall’altro aguzza l’ingegno. Io ho il vantaggio di stare ostinatamente solo, senza parlare con alcuno. Passo per passo. D’altra parte bisogna attendere le nuove generazioni. Quelli lì non vorranno essere sacrificati e incatenati come noi. Quelli lì, in un modo o nell’altro, reclameranno il diritto a vivere, cioè ad essere uomini e non pecore (…) Io vorrei guidare i giovani alla riscossa civile, ma dove sono i benedetti giovani? (…) Ti capisco e sono con te, pronto a domandare, come tu chiedi, la santa libertà, che non è un motto, ma lo scopo dello stare al mondo (…) la voce che parla dentro la mia anima non è che quella purissima della mia poesia».
Nella parte successiva della lettera assumono grande rilevanza le riflessioni sulla guerra, considerando che Bartolini era stato insignito della medaglia di bronzo al valor militare, reduce della Grande Guerra. Contro la Russia scrive «un governo di tiranni (…), anche quelli là preparano la guerra, il mondo deve debellare ogni stato guerriero. La guerra sta bene in Omero, non dinanzi ad un 105 (il calibro di un ordigno bellico, cannone o obice, Nda). Quindi la guerra non è un insieme di fatti valorosi e di atti di coraggio, ma è un’immensa vigliaccheria. Si va avanti perché andare indietro costa di più. Indietro ci si va soli alla fucilazione. Avanti ci si va con la speranza che la pallottola salvi noi e ferisca il compagno a lato. Io fui uno stupido a scrivere il Ritorno sul Carso, sebbene quel libro esprima lo stato d’animo ingenuo, candido, d’un giovane illuso e combattente».
Soprattutto per le affermazioni contenute in questa lettera, Luigi Bartolini sarà privato della tessera al partito fascista, tradotto da Osimo al carcere anconetano di Santa Palazia, ivi detenuto dal 10 al 15 luglio, interrogato e poi inviato al confino politico di Montefusco, in provincia di Avellino. Condannato a un anno di reclusione, vi restò in effetti dal 16 luglio fino all’11 agosto 1933 , per un atto di clemenza personale di Benito Mussolini, che nello stesso anno lo fece trasferire come sorvegliato speciale e insegnante di disegno a Merano. Ancora nel 1937, in riscontro alla Questura di Bolzano, quella di Ancona risponde con nota del 20 novembre che «non si ritiene opportuno, almeno per ora, di avanzare proposta per la radiazione del Bartolini dal novero dei sovversivi». Di prossima pubblicazione il regesto dei documenti riguardanti Luigi Bartolini agli atti dell’Archivio di Stato di Ancona.
Bartolini incisore
Nata da un’idea di Vittorio Sgarbi, curata da Alessandro Tosi e Luca Cesari, la mostra «Al vivo nero. Luigi Bartolini incisore» nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino presenta la più estesa rassegna finora organizzata dell’opera calcografica di Luigi Bartolini.
Anche nell’ambito dell’incisione si perpetuano le vite parallele di Morandi e Bartolini, come documenta nel 1934 Lamberto Vitali nel suo saggio L’incisione moderna italiana. Pur accostando le pagine dedicate ai due maestri, le considerazioni critiche non potrebbero esser più divergenti. Morandi fine tessitore di regolari reticoli incrociati, restituisce i valori tonali dei soggetti con la densità variabile dei tratteggi. Bartolini, che alterna tratti delicatissimi con segni marcati dai neri più profondi, trasferisce con un pennino ipersensibile lo scintillare emotivo delle passioni della lastra metallica alla carta.
Saranno visibili fino al primo maggio, termine prorogato della mostra, le 130 incisioni esposte, che coprono l’intero arco temporale della produzione bartoliniana, dal 1910 al 1959, provenienti dalle collezioni Timpanaro, Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi, Luciana Bartolini, Paolo Bassano. Molte delle opere esposte sono stampe tirate dalle stesse matrici di incisioni appartenenti ad alcuni dei più importanti musei italiani e stranieri, tra cui: Art Museum Ateneum, Helsinki, British Museum, Londra, Kunst Museum St. Gallen, San Gallo, Musée Jeu de Paume, Parigi, Museum of Modern Art, New York, National Gallery of Art, Washington.
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