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Vincenzo de Bellis
Leggi i suoi articoliAvvocato di professione e collezionista per vocazione, Giuseppe Iannaccone inizia a collezionare negli anni Ottanta, con un forte interesse per l’arte moderna italiana, in particolare quella degli anni Trenta e Quaranta. Con il passare del tempo, amplia il suo sguardo, abbracciando l’arte contemporanea. La mostra «Da Cindy Sherman a Francesco Vezzoli. 80 artisti contemporanei. Opere dalla Collezione Iannaccone» (catalogo Allemandi), aperta dal 7 marzo al 4 maggio nel Palazzo Reale di Milano e curata da Daniele Fenaroli con la consulenza scientifica di Vincenzo De Bellis, presenta il nucleo contemporaneo della collezione. Qui una conversazione tra Giuseppe Iannaccone e Vincenzo De Bellis.
Come ti sei avvicinato all’arte contemporanea? Qual è stata la prima opera che hai comprato?
Ho iniziato a collezionare opere italiane degli anni Trenta con una mia intima idea di Espressionismo. Non mi davo pace all’idea che nel Ventennio in Italia non ci fossero artisti espressionisti liberi dagli schemi pittorici ufficiali. Ogni volta che compravo un capolavoro, però, facevo autocritica. Mi dicevo: «È mai possibile che io abbia necessità della storia dell’arte per formare una collezione, perché da solo non sono in grado di cogliere l’artista destinato a rimanere nella storia?». Questo stimolo mi ha sempre accompagnato fin dal primo momento. Così dopo un po’ di anni ho cominciato a comprare arte contemporanea, sempre con l’idea di ritrovare quegli stessi valori pittorici che cercavo nell’arte del Ventennio, nell’arte storicizzata, però ambientati in un’epoca coeva alla mia esistenza e ovviamente sono passato attraverso percorsi che poi in qualche modo ho rinnegato, nel senso che le prime opere che ho acquistato in massima parte le ho rivendute. Da oltre vent’anni mi sono concentrato su quella che poi è diventata la collezione attuale e ho comprato opere che non ho mai più venduto.
Qual è l’opera che ritieni fondante, l’inizio della tua collezione attuale?
Ti citerò dei lavori che non sono esposti nella mostra: sono delle opere di Piero Guccione. Lo ammiravo e lo ammiro tuttora per la sua capacità di dipingere il silenzio, il mare pensando a qualcosa d’altro, per questo suo modo totalmente nuovo di dipingere la natura che andava ben oltre la natura, ma che era un modo per guardarsi dentro. La fonte ispiratrice della mia ricerca è quindi questo guardarmi dentro. In questo senso considero Guccione un po’ l’origine.
Non ho mai conosciuto personalmente Guccione, però la mia famiglia ha un rapporto con lui, perché mio cognato Pietro (Roccasalva, Ndr), di cui hai un’opera in collezione, e Bruna (Roccasalva, moglie di Vincenzo de Bellis, Ndr) sono di Modica.
Devo dirti una cosa: ho frequentato Piero e ci siamo voluti molto bene, anche se il primo incontro non era stato felicissimo perché mi ero presentato da lui, che viveva in una villa isolata, facendomi introdurre da amici comuni. Appena è uscito dalla porta per aprirmi il cancello, mi è squillato il cellulare, che per Piero e la moglie fu come una scossa elettrica. Così capii immediatamente il clima nel quale loro vivevano. Però poi è nata tra noi una grande amicizia e tutte le volte che lo vedevo, mi chiedeva di Roccasalva, come stesse. Piero viveva un po’ fuori dal mondo e probabilmente ne era consapevole, per cui, benché vivesse la mia stessa esistenza, aveva tutte le carte in regola per sapere di Roccasalva. Lo chiedeva a me perché mi riteneva uno molto vicino al mondo di Pietro Roccasalva e quindi penso che sia stato il suo discepolo preferito. Comunque quello che sicuramente ha fatto più carriera.
C’è un filo rosso nella tua collezione, cioè ci sono criteri e temi che segui?
Io seguo molto l’emotività che abbiamo dentro, sia le brutture sia le meraviglie che riguardano l’animo umano. Io sono innamorato di tutto ciò che attiene all’emotività e mi piace poterlo contemplare attraverso la poesia dell’arte, perché se lo raccontiamo diventa una discussione che tratta di cose non sempre piacevoli, ma se lo contempliamo nelle opere d’arte diventa affascinante. Ricerco una sublimazione dell’essere umano, nella quale mi affascina l’originalità. Di conseguenza mi sono sorpreso a comprare tante artiste donne, tanti artisti omosessuali, tanti artisti neri. Non è una scelta. È una scelta l’opera, ma poi è una coincidenza che in questi ultimi decenni l’originalità abbia riguardato queste categorie di persone, che probabilmente avevano più cose da dire rispetto alla media degli artisti.

Roberto De Pinto, «La pennica pomeridiana» (2022). Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone
Sono molto d’accordo con te. Spesso, per il fatto di essere italiano ma di lavorare a livello globale, mi viene chiesto perché gli artisti italiani contemporanei sono così sottovalutati all’estero. L’Italia in questo momento storico non rappresenta il centro del mondo a livello artistico, politico, sociale, imprenditoriale. Ciò non significa parlare male del nostro Paese, ma semplicemente riconoscere il nostro momento storico, in un contesto molto più ampio di quello anche soltanto di dieci anni fa. E siccome l’arte, e la tua collezione in particolare, ne è un esempio, ossia non vive isolata dalla realtà ma è lo specchio della realtà nella quale viviamo, questo vale anche quell’arte che si fa nello studio, principalmente la pittura ma non soltanto quella. Laddove ci sono delle istanze di rinnovamento e si sente il bisogno di esprimere sia il disagio sia una condizione di miglioramento della propria condizione o semplicemente una necessità di essere e di raccontare ciò che in questo momento nel mondo non funziona, tutto ciò viene discusso e affrontato in quei luoghi dove questo dibattito c’è e gli artisti ne sono la testimonianza. Voglio dire che in questi anni sono emersi tanti artisti di colore, africani, del Sud-est asiatico; molte persone pensano che sia una mera speculazione del mercato e, almeno in parte, non lo si può negare, ma è altrettanto vero che quelli sono i luoghi in cui le istanze sociali sono più forti, e da cui provengono le richieste di cambiamento di cui stiamo parlando. Quando alla fine degli anni ’60 il dibattito politico e sociale era tra gli Stati Uniti-Berkeley, l’Italia con il movimento studentesco italiano e la Francia, non era un caso che il mondo artistico ruotasse attorno a questi tre poli. Questo mi dà l’occasione di continuare a parlare del tuo interesse nei confronti di queste nuove voci che raccontano tale urgenza di comunicazione e anche di legarmi al tuo rapporto con l’arte contemporanea italiana.
Questo discorso mi interessa moltissimo perché è legato alla prima domanda che mi hai fatto, cioè perché l’arte contemporanea, perché io che sono legato così tanto all’animo umano non posso che essere legato alle istanze sociali. Queste due cose vanno di pari passo. Ciò che io non accettavo, pur nella gioia di collezionare opere storiche, era di dover arrivare a studiare istanze sociali che fossero poeticamente rappresentate con il supporto dalla storia dell’arte, che ovviamente ha un suo valore ma non è sufficiente per essere collezionista. Bisogna invece trovare chi vive le realtà sociali a noi contemporanee. Il vero collezionista deve essere in grado di anticipare con una visione poetica strategica quello che avverrà in ordine alle tematiche sociali che poi affliggono il nostro mondo. Sono felice di questa mostra per tante ragioni; una è che io non avrei mai accettato di fare una mostra per costringere i milanesi a guardare le mie opere se non fossi convinto che, dopo oltre vent’anni, è una collezione che ha la sua dignità nel racconto poetico della socialità che viviamo.

«Big Blonde Jerking Off» (1995) di Lisa Yuskavage. © Lisa Yuskavage. Cortesia dell’artista e di David Zwirner
Questo è il motivo per il quale quando tu hai chiesto il mio coinvolgimento scientifico, per me è diventata una sfida molto interessante, non solo perché la collezione è di altissimo livello ma anche perché mi dava l’occasione di conoscere in profondità artisti con i quali non ho mai lavorato. Quindi la mostra è stata costruita guardando un po’ con i miei occhi, con il mio pensiero, sapendo anche di non rappresentare necessariamente solo il tuo punto di vista, ma anche il mio, diciamo uno sguardo esterno. La mostra è un continuo rimando tra sogni e realtà, tra la realtà che viviamo tutti i giorni e il modo in cui gli artisti, pur stravolgendo questa realtà, ce la raccontano, facendoci vedere dei momenti che noi conosciamo attraverso i loro occhi, a volte portandoci in una dimensione totalmente differente. Ma in realtà la mostra è stata costruita in un dialogo costante tra noi due, perché ogni volta che si sceglievano delle opere tu eri fortemente coinvolto nella scelta. Ovviamente alcuni accostamenti sono molto più personali da parte mia, ma vorrei che parlassi di questo aspetto, ossia che la mostra, pur essendo stata fatta attraverso gli occhi di una terza persona, ti rappresenta.
Quando ti ho proposto di essere un protagonista di questa mostra, da una parte ho apprezzato che tu ti sia preso il tuo tempo per decidere e che prima abbia voluto verificare nel dettaglio la collezione che non conoscevi, dall’altro mi ha fatto tirare un sospiro di sollievo il fatto che alla fine tu abbia accettato, non solo per la grande stima che ho di te, ed è la ragione per cui ho contattato solo te e nessun altro, ma anche perché la collezione aveva superato l’esame a cui tenevo di più. Il fatto che tu abbia accettato l’incarico mi dava conferma di quello che io sentivo intimamente, cioè che la collezione fosse pronta per essere esposta al pubblico. Tu hai interpretato esattamente le regole d’ingaggio che mi hai illustrato una sera a cena, quando mi hai detto: «Io farò le mie scelte e su qualche cosa non saremo d’accordo, ne discuteremo, e spero che poi alla fine troveremo una soluzione». È andata esattamente così perché il percorso l’hai scelto tu e io sono sempre stato d’accordo con le tue scelte, perché la tua visione si sposava perfettamente con la mia. Tu avevi già deciso ben oltre il 90% di quello che mi entusiasmava, ma quelle poche unità che io ho voluto introdurre le abbiamo condivise e quindi è una mostra che mi rappresenta perfettamente. Per me irrinunciabili sono dei grandi amori che sono rimasti nel caveau ma sono in qualche modo già rappresentati nella mostra o con altre opere o con altri artisti, quindi dal mio punto di vista questa è la mostra che ho sempre sognato. Questa non è soltanto la prima volta che la mia collezione d’arte contemporanea viene esposta, questa è la prima volta a Palazzo Reale, è la prima volta che la mostra viene deliberata dalla giunta del Comune di Milano: è come se Milano mi avesse dato l’Ambrogino d’oro e sono contento di ritirarlo insieme a te.

Cindy Sherman, «Untitled #555» (2010-12). Cortesia dell'artista, di Hauser & Wirth e della Collezione Giuseppe Iannaccone © Cindy Sherman
Tu sei un grande appassionato di calcio (sei tifoso del Napoli e io del Bari). Condividiamo la presidenza, mettiamola così. Nelle interviste gli allenatori quasi sempre rifiutano di esprimere un giudizio sui singoli, ma vorrei, al contrario, che tu mi parlassi di qualche artista presente in mostra. Vorrei che mi elencassi, tra i tanti artisti in mostra, alcuni amori che magari non sono esposti ma sono rappresentati nella collezione, non per una questione di valore dell’opera in sé, ma in termini di tua affezione nei confronti di un artista o di un’opera.
È una domanda complicata perché ogni volta che nomini un artista fai un torto a qualche altro che merita lo stesso livello. Potrei parlarti di artisti «incompiuti», nel senso che non hanno ancora completato il percorso e che io vorrei lo facessero all’interno della mia collezione. Tra gli artisti che vorrei ancora, il primo fra tutti è certamente Jem Perucchini, il quale, è sì un ragazzino che non ha neanche trent’anni però...
Se tu me l’avessi chiesto, l’avrei proprio citato tra quelli che io avrei considerato irrinunciabili in questa mostra.
Ecco, penso che Jem Perucchini sia una straordinaria ventata di novità nell’arte contemporanea da tutti i punti di vista, sia dal punto di vista proprio del dato pittorico, che è nuovo nella sua espressione, sia dei contenuti per la sua capacità di parlare di contemporaneità attraverso, per esempio, il mito greco. Lo trovo straordinario e unico, come deve essere un vero poeta. È un vero artista, quindi, se sotto tortura dovessi fare un nome, sarebbe il suo.
Tu hai un’opera che, se avessi le disponibilità necessarie, esattamente come hai fatto tu quando l’hai comprata, proverei a portartela via anche se so che tu non me la daresti: è «Untitled» (2000) di Laura Owens. In catalogo racconti che un sabato, sapendo a chi apparteneva, ti sei svegliato e hai chiesto a questa persona di incontrarvi alle 9:30 e a mezzogiorno il dipinto era tuo. Perché quell’opera è così importante per te?
Quell’opera è una delle più importanti della mia collezione perché c’è un richiamo all’immortalità della storia dell’arte: quando tu riesci a citare un grande capolavoro del passato e a creare un’opera rivoluzionaria con una mente contemporanea, da una parte siginifica che sei un grande artista, dall’altra mi stai dicendo che l’arte è immortale, che puoi introdurre novità nell’arte con i mezzi pittorici più classici, con le rappresentazioni più classiche se hai la capacità di esprimere l’animo umano e l’animo poetico che si evolvono e diventano contemporanei grazie a queste caratteristiche di originalità. Quell’opera è bella perché poetica, perché è dolce, perché è un connubio di colori meravigliosi, perché fa tenerezza, perché senti che è una pietra miliare nella storia dell’arte contemporanea. Ti racconto anche un altro episodio: ho prestato quest’opera al Whitney Museum of American Art di New York, al Dallas Museum of American Art e al Museum of Contemporary Art Los Angeles (MoCA) e la tennero addirittura per tre anni in piena epoca Covid. Per quell’opera mi venne offerta una cifra pazzesca da parte di un ricco americano. Tieni conto che eravamo chiusi in casa a causa del Covid e io ho uno studio professionale molto importante e numeroso che, come tutti in quel periodo, attendeva con ansia il suo futuro, ma io non ebbi una sola esitazione. Mia moglie mi disse: «Vendiamolo», ma io le risposi: «Muoio col quadro, ricordati: io muoio col quadro». Quindi, Vincenzo, ti direi di no.

Nicole Eisenman, «Beasley Street» (2007). Foto Studio Vandrasch. Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone
Sarei molto contento di farmi dire di no, ma sarei altrettanto contento di provarci. Immagino che anche a te sia capitato di ricevere dei rifiuti, ma hai sentito l’onore e l’onere di avanzare quella richiesta a prescindere dall’esito, perché quando qualcuno ti chiede un’opera è un riconoscimento della sua importanza. Amo molto Laura Owens, anche se non tutte le sue serie storiche, e sono contento che quella sua opera sia in una collezione italiana perché quel lavoro nella carriera di quell’artista, e stiamo parlando di una pittrice tra le più importanti della sua generazione, è una di quelle che rimarrà nella storia dell’arte contemporanea, che poi sarà la storia dell’arte del futuro. Nella tua collezione ci sono altre opere di quel calibro. Tienitela stretta.
Anche mia moglie poi ha cambiato idea. Quell’opera è sempre stata sul nostro letto matrimoniale e mia moglie ha fatto fare tutta la camera da letto ispirata a quel dipinto: abbiamo il letto esattamente dei colori dell’opera, la coperta del colore di quello dell’opera, e quindi adesso mia moglie la adora e anzi ha realizzato il mio sogno di avere un’intera camera da letto dedicata al dipinto di Laura Owens.
Da qualche anno hai iniziato anche un’ulteriore attività legata alla tua collezione, ossia quella della Fondazione, per cui, oltre all’acquisto delle opere ti poni anche nella condizione di committente, di mecenate a supporto anche della visibilità degli artisti. Qual è il tuo rapporto personale con gli artisti della tua collezione? E come funziona la tua Fondazione, che si concentra molto su artisti giovani, all’inizio della loro carriera? Che futuro vedi per la Fondazione?
Anche prima della Fondazione ho sempre svolto un lavoro sui giovani, giovanissimi artisti che presentavo nel mio studio in mostre tematiche ispirate ai lavori della collezione stessa. Negli ultimi anni questo lavoro si è intensificato molto, grazie anche al grandissimo e disinteressato impegno di Daniele Fenaroli che è sia il direttore generale della Fondazione sia il curatore della collezione. Queste mostre tematiche stanno generando una sorta di circolo culturale a cui partecipano tutti i giovani artisti. Ad esempio, all’inaugurazione di ciascuna delle mie mostre arrivano tutti i giovani artisti milanesi, una decina di ragazzi che sono quelli ai quali ho già dedicato una mostra e anche quelli a cui non l’ho mai dedicata, però vengono lì perché riconoscono che il mio è diventato un salotto in cui si parla della giovane arte e della mia ansia di nuove scoperte. Questo mi fa molto piacere perché poi a queste mostre arrivano Domenico Piraina, Gianfranco Maraniello, l’assessore alla cultura, quindi è segno che quello che sto facendo fa innamorare i giovani artisti ma viene riconosciuto anche dalla città, che è quello a cui io tengo di più: che Milano possa ricevere qualcosa in cambio di quelle cose meravigliose che mi ha donato nella vita.
Mi hai raccontato l’importanza che hanno avuto per te i viaggi e la scoperta personale degli artisti. Mi hai parlato dei tanti viaggi che hai fatto all’inizio con Claudia Gianferrari e con altri amici anche in località e in luoghi non così scontati per il collezionismo più tradizionale. Quanto è importante per te la visione diretta di un’opera nelle mostre e nelle fiere?
Faccio una premessa: non esiste una sola opera entrata nella mia collezione che io non abbia visionato e scelto personalmente. Il lavoro che Daniele Fenaroli svolge per me è indispensabile e fondamentale perché io sono molto impegnato nella vita professionale, ma anche altrettanto organizzato. Non c’è asta internazionale di arte moderna o contemporanea, rivista d’arte, e intendo tutte, che io non veda, perché mi è già capitato di scoprire proprio in un’asta «minore» opere trascurate da qualche collezionista. Questo continuo studio e aggiornamento mi porta a maturare i miei convincimenti. A questo unisco i viaggi, perché io devo tantissimo alle fiere e alle gallerie di Miami, Basilea, Londra e Parigi. Quando mi è possibile visito ancora le fiere e le gallerie all’estero. Ora si fanno tante videoconferenze, ma prima della pandemia non c’era viaggio di lavoro che poi non comportasse una cena con un gallerista o una visita in una galleria: è così che ho conquistato le opere che mi sono più care. Ecco un esempio concreto: ritengo di essere stato io a portare in Europa, perché l’ho vista in una galleria a Miami e me ne sono innamorato, Toyin Ojih Odutola. Sembrava inarrivabile ma ho fatto il diavolo a quattro per farla partecipare a Manifesta 12 a Palermo. Dopodiché ho restaurato una casetta nell’Orto botanico di Palermo, dov’è stata allestita la sua mostra. È lì che la galleria ha finalmente accettato di vendermi delle sue opere. Questo implica un mio impegno personale che riesco a conciliare perfettamente con la mia professione, che non è minimamente disturbata dalla mia passione per l’arte, anzi ne beneficia. Si dice che gli uomini, se sono innamorati, rendono di più nella professione perché sono più sereni e carichi di entusiasmo. Io sono perennemente entusiasta perché ho un’innamorata fedelissima a cui io sono fedelissimo e che mi consente di avere sempre un equilibrio fantastico da spendere poi nella professione di avvocato: l’arte.

Zanele Muholi, «Musa Ngubane and Mabongi Ndlovu» (2007). Foto Studio Vandrasch. Cortesia della Collezione Giuseppe Iannaccone
Dal punto di vista del mercato stiamo vivendo un momento molto complesso. Veniamo da 15 anni di bagordi. Nonostante le crisi economiche del 2006 e del 2008, che sono state superate dal mondo dell’arte in modo fulmineo, e la pandemia, che avrebbe potuto rappresentare una mazzata per un sistema, come quello dell’arte, fatto di tanti eventi dal vivo, ma in realtà dal punto di vista economico non l’ha scalfito. Da circa due anni è invece in atto una flessione considerevole, ma anche ciclica e, secondo me, è naturale, ma che si sta rivelando tra le più significative degli ultimi vent’anni. Tu, da collezionista, come la vivi?
Premesso che, come giustamente dici tu, forse questa volta è più significativa rispetto al passato, la vivo bene nel senso che è fisiologica perché la rincorsa dell’arte aveva generato bolle inspiegabili, cioè una crescita dei prezzi veramente irragionevole. La vivo bene perché non sono un industriale ma un professionista e, per quanto baciato dalla fortuna, ho delle disponibilità che mi impongono di arrivare agli artisti quando sono molto giovani perché, una volta consacrati, per me diventano irraggiungibili. Alla stessa Laura Owens sono arrivato quando ancora me la potevo permettere. Oggi quel dipinto per me sarebbe inaccessibile, quindi è quella bolla che mi danneggiava. L’attuale ridimensionamento si accompagna anche a una selezione perché ovviamente gli artisti soltanto «di mercato» spariscono. La selezione che si sta determinando e questa crisi mi offrono un periodo più lungo di accesso alle opere d’arte che io inseguo. Non devo più cogliere nell’arco di un anno il giovane artista perché altrimenti i suoi prezzi poi schizzeranno alle stelle. Casomai ora ho a disposizione tre anni per arrivarci, quindi non mi dispero di questo. Non ho mai fatto il conto di quello che ho, quindi non è che soffro del fatto che possano abbassarsi i valori di quello che ho, perché quelle opere sono mie e non le vendo. Al contrario ora ho più accesso al mercato, posso arrivare a nuove conquiste e questo per me è molto importante. C’è però una sola controindicazione, che non riguarda i giovanissimi perché con i giovanissimi hai più accesso, ma riguarda chi ha il capolavoro dell’artista consacrato.
Certo. Appunto.
Nei momenti di euforia lo si metteva sul mercato, mentre oggi lo si tiene stretto e quindi c’è una penuria di opere di qualità. Bisogna cercare più attentamente per trovare l’opera di grande qualità. L’importante è non farsi prendere dalla fretta: tu stai fermo e il capolavoro ti viene a cercare.
C’è anche un altro aspetto negativo che è visto attraverso la lente degli artisti. Non mi riferisco tanto agli emergenti, ma a quelli che sono ormai in qualche modo consacrati. In un momento in cui le loro opere hanno raggiunto dei prezzi che l’attuale mercato non riesce a sostenere, in modo molto umano entrano spesso in una loro fase di crisi personale.
Questo lo capisco bene.
E questo ha dei limiti sulla loro crescita professionale. Però al tempo stesso, secondo me, quelli il cui lavoro ha più forza in questi momenti creano le loro opere più importanti.
Questo è un elemento a favore della collettività, che non tornerà indietro. Crisi o non crisi, la gente sarà sempre pronta a comprare l’arte e quindi quando riprenderà il mercato lo farà su basi più serie, di selettività adeguata.
Sono d’accordo con te. Per il lavoro che faccio, questo è un momento complicato perché osservo la situazione generale del mercato e vedo gallerie che partecipano alle nostre fiere facendo più fatica di quanto si facesse un tempo. Ma vedo anche gli aspetti da curatore e quindi colgo gli aspetti positivi, che sono quelli della maggiore ambizione degli artisti, i quali sanno che ciclicamente, dopo i momenti di crisi, ci sarà una fase di grande ripresa e pertanto di stabilità per un po’ di anni. Quindi ben venga questo momento e spero che i collezionisti che amano l’arte acquistino, perché c’è disponibilità di grandi opere.
È un po’ quello che che faccio io: approfitto di questo momento.
Per concludere. Come vedi la tua collezione tra vent’anni?
Tra vent’anni vorrei un’esposizione permanente della mia collezione. Vorrei che fosse molto più milanese di quanto non lo sia oggi. È una bella porta quella che mi ha aperto Milano. Intenderei tenerla aperta. Non vorrei un appuntamento fra vent’anni, ma vorrei che ci fossero vent’anni da trascorrere insieme.

Lisetta Carmi, «I travestiti, Pasquale» (1968 ca). Lisetta Carmi © Martini & Ronchetti. Cortesia dell’Archivio Lisetta Carmi
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