Per noi oggi, l’idea che i disegni siano opere d’arte è perfettamente naturale, e inoltre molte volte troviamo la spontaneità dei disegni degli antichi maestri notevolmente più accessibili che la formalità dei loro dipinti finiti. Comunque sia, non è sempre stato così: al contrario, prima degli ultimi anni del Quattrocento, i disegni furono considerati esclusivamente come strumenti del mestiere e l’unica ragione per conservarli era di lasciarli in eredità alla futura generazione di artisti. Una «Giuditta» di Andrea Mantegna agli Uffizi, che reca la data 1490, è uno dei rari esempi di un disegno a sé stante eseguito prima del 1500, ma tutto cambia con l’arrivo sulla scena di Leonardo, Michelangelo e Raffaello. Però, dei tre è soprattutto Michelangelo che ha consolidato il concetto del disegno di presentazione.
Siamo eccezionalmente ben informati sulle destinazioni di questi fogli, e per di più su tutta la carriera di Michelangelo, grazie a tre biografie contemporanee, due pubblicate prima della morte dell’artista nel 1564. Due sono di Giorgio Vasari, una nella prima edizione delle sue Vite del 1550 e l’altra in una forma rivista e ampliata nella seconda edizione del 1568, mentre la terza, che esce nel 1553, è di Ascanio Condivi. Al British Museum (fino al 28 luglio) la mostra «Michelangelo: the last decades» (Michelangelo: gli ultimi decenni) è riuscita a raccogliere un gruppo straordinario di disegni di questo tipo, che sono accompagnati non solo da disegni preparatori del maestro per suoi dipinti, sculture e architetture, ma anche da invenzioni create per aiutare allievi e colleghi accanto alle traduzioni di queste idee in dipinti.
Nell’eccellente catalogo della mostra di Sarah Vowles e Grant Lewis, non c’è un elenco separato delle opere esposte, ma nelle didascalie delle illustrazioni ogni pezzo presente viene indicato dalla parola «Cat» fra parentesi. L’enorme maggioranza dei prestiti di disegni autografi che gli organizzatori hanno potuto ottenere provengono da collezioni britanniche, e in particolare dalla Biblioteca Reale a Windsor (8) e dall’Ashmolean Museum a Oxford (6), che, con il British Museum stesso (26), vantano un patrimonio senza pari di opere su carta di Michelangelo, ma non vuol dire che non ci siano prestiti internazionali.
Nelle mostre mi diverto sempre a indovinare quali capolavori il museo ha sognato di avere senza successo (inevitabilmente figurano nei cataloghi riprodotti su grande scala tra le opere di confronto), ma in questo caso non potevo immaginare che erano più di un modestissimo tre, cioè la versione della «Caduta di Fetonte» nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia (altre due sono presenti in mostra), il cosiddetto «Silenzio» del Duca di Portland e la «Pietà» dell’Isabella Stewart Gardner Museum di Boston. Il secondo di questi tre è eseguito a sanguigna, e la sua assenza, come quella del «Baccanale dei putti» della Royal Collection nella stessa tecnica, sottolinea quanto col passar degli anni Michelangelo abbia abbandonato il rosso per la relativa austerità della matita nera.
Per tornare ai disegni di presentazione in mostra, si dividono tra opere profane e opere sacre. Vasari racconta che il principale beneficiario del primo gruppo fu Tommaso de’ Cavalieri, che ha ricevuto i già menzionati «Baccanale» e «Fetonte», ma anche rappresentazioni di «Ganimede», noto nella forma di un’ottima copia, a volte considerato un originale, e «Tizio» (in mostra). L’amore può prendere mille forme, ma non ci possono essere dubbi né che Michelangelo amava il giovane e bellissimo Cavalieri, né che i protagonisti maschi nudi così seducenti di tre su quattro di questi disegni rispecchino la sua passione ossessiva per il loro destinatario. Per Vittoria Colonna, una specie di santa laica che abitava nel convento di San Silvestro in Capite a Roma, invece, i soggetti dei disegni di presentazioni erano tutti religiosi. I più importanti sono un «Cristo sulla croce» al British Museum e la già menzionata «Pietà» ora a Boston, sulla quale l’artista, grandissimo ammiratore di Dante, ha iscritto un verso dal XXIX Canto del Paradiso («non vi si pensa quanto sangue costa») sull’asta della croce.
Molti di questi fogli, all’epoca nascosti in collezioni private, godevano comunque di una diffusione contemporanea ampia grazie alle loro riproduzioni in varie forme, come dipinti, stampe, placchette in bronzo e cristalli di rocca incisi, opere che vengono celebrate nella mostra. Nel caso della «Pietà», per esempio, viene fedelmente riprodotto nella forma di un’incisione di Giulio Bonasone e di una tavola di Marcello Venusti. Dipinti supplementari di Venusti si ritrovano anche nella sezione della mostra che riunisce disegni di Michelangelo per altri artisti con le loro derivazioni, ma non ne sono l’elemento più avvincente. Questo onore va all’olio su lavagna a due facce di Daniele da Volterra, che rappresenta una composizione di «David e Golia» quasi, ma non completamente, identica da due punti di vista opposte, con l’ambizione di paragonare la bidimensionalità della pittura con la scultura a tutto tondo. Affascinante, ma purtroppo molto meno illustre esteticamente, è il confronto tra il famoso cartone dell’«Epifania» di Michelangelo al British Museum e la tavola debolissima di Condivi che ne dipende, tutti e due appena restaurati. Avendo saputo che una volta il quadro fu considerato un originale di Michelangelo, non sapevo se ridere o piangere.
In conclusione, sembra molto importante non dimenticare i nove disegni per il «Giudizio universale» della Sistina, perché sono gli unici fogli nella mostra che, tra studi per l’insieme, per gruppi, per singole figure e per particolari ravvicinati, danno un vero senso di come Michelangelo sia arrivato a sviluppare le sue opere. Ci lasciano ugualmente almeno un po’ capire quanto avrà sofferto e lavorato prima di arrivare alla perfezione dell’affresco compiuto.