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Camille Viéville
Leggi i suoi articoliNata ad Harlem nel 1930, Faith Ringgold, pittrice, artista tessile, performer e autrice, dagli anni Sessanta si concentra su un’arte politica e plurale che riflette il suo attivismo a favore dei diritti civili e dell’emancipazione femminile. Formatasi al City College di New York, il primo college pubblico gratuito degli Stati Uniti, è stata influenzata dall’Harlem Renaissance, un movimento culturale che ha animato la produzione artistica afroamericana tra le due guerre mondiali, ma anche dalla modernità europea.
È questo legame a motivare la retrospettiva al Musée National Picasso di Parigi (dal 31 gennaio al 2 luglio): al di là del valore intrinseco della sua opera, che la mostra cerca abilmente di rivelare, la visione appassionata e al tempo stesso critica di Faith Ringgolds nei confronti di Pablo Picasso ha suscitato l’interesse della curatrice Cécile Debray, desiderosa di ripensare la contemporaneità del pittore spagnolo.
A partire dagli anni Settanta, Faith Ringgolds ha mescolato le sue influenze iniziali con pratiche popolari come il tanka (tessuto dipinto della cultura buddista tibetana), le maschere o le trapunte (patchwork), senza dimenticare i numerosi cenni alla scena newyorkese, dal pop di Andy Warhol al New Dada di Jasper Johns.
Curata da Cécile Debray, la mostra è concepita cronologicamente e articolata intorno ad alcune importanti serie che strutturano il lavoro di Ringgold. Si inizia con un piccolo gruppo di dipinti di figure dei primi anni Sessanta, «Early Works», tra cui un bellissimo autoritratto. Da questa sala introduttiva si comprendono le ambizioni dell’artista: offrire alla comunità nera del suo Paese una visibilità, un luogo, ma anche una storia che le è stata negata per decenni a causa della colonizzazione, della schiavitù e della segregazione.
Così, stilizza i volti con colori tenui, arricchiti dal verde smeraldo o dal blu, e con linee sinuose. All’espressione fredda dei cinque uomini bianchi che fissano lo spettatore («Early Works #15: They Speak No Evil», 1962), contrappone l’individualizzazione dei tratti e il sorriso degli afroamericani («Early Works #20: Black and Blue Man», 1964). Perché la figurazione, condivisa con altri artisti di Harlem (Norman Lewis, William H. Johnson, ecc.), era la strada che aveva scelto di percorrere, quella che riteneva potesse trasmettere le sue emozioni e le sue lotte, rompendo con il freddo formalismo allora in voga: «L’arte militante era disprezzata perché ingenua, persino volgare», osservava, consapevole di posizionarsi controcorrente.
Panorama Afroamericano
Dedicate a due serie chiave, «American People» (1963-67) e «Black Light» (1967-69), la seconda e la terza sezione della mostra mostrano quanto il lavoro di Faith Ringgold sia profondamente radicato nelle lotte che sostiene.
Mentre nel 1964 veniva promulgato il Civil Rights Act, che poneva fine alla segregazione razziale, Faith Ringgold intraprendeva nella prima di queste due serie una revisione senza compromessi dell’«American way of life». L’artista ritrae le profonde disuguaglianze che permangono nella società americana, la sua intrinseca violenza e ipocrisia. Il volto sgradevole dei vicini («American PeopleSeries #3: Neighbors», 1963) o, al contrario, quello dolce di un uomo ben vestito («American PeopleSeries #6: Mr. Charlie», 1964), tutti bianchi, portano così alla luce le tensioni tra le comunità.
Quanto ad «American People Series #17: The Artist and His Model», il dipinto sottolinea con feroce ironia il disinteresse di alcuni artisti neri per l’impegno politico e sociale, scioccamente soddisfatti di poter finalmente dipingere donne bianche. Nell’estate del 1967, mentre aumentano le violenze della polizia contro i neri, Faith Ringgold completa la serie con tre composizioni di grandi dimensioni. Tra queste, «American People Series #20: Die» conferisce alla rappresentazione di una sanguinosa scena di rivolta la stessa potenza del bombardamento di Picasso sul villaggio di Guernica (il dipinto del pittore spagnolo fu molto ammirato dalla giovane artista al MoMA di New York, dove fu conservato tra il 1939 e il 1981).
La serie «Black Light», iniziata nel 1967, prosegue alcune delle strade esplorate nei primi lavori per elevare la bellezza degli afroamericani e della loro cultura. Faith Ringgold utilizza una tavolozza scura combinata con i colori della bandiera panafricana (rosso, verde, nero) e del femminismo (viola) per tratteggiare forme pulite e ritmiche ispirate alle maschere e ai motivi tradizionali africani, ma anche al jazz. È sempre in questo periodo che crea diversi manifesti politici di rilievo, tra cui uno sull’ammutinamento dei prigionieri di Attica (Stato di New York), represso nel sangue dalle autorità nel 1971.
Impiego multidisciplinare
Nello stesso anno, durante un viaggio in Europa, Faith Ringgold scopre l’arte del tanka. Al suo ritorno negli Stati Uniti, rinnova completamente la sua pratica artistica creando dipinti su tessuti, seguiti, a partire dal 1980, da dipinti su quilt. Esposte nella quarta sala, queste opere rivelano il desiderio dell’autrice di far rivivere le tecniche vernacolari africane e americane. I primi dipinti, la serie «Slave Rape» (1972), riguardano la schiavitù e l’alienazione femminile. Si tratta di opere eseguite collaborando con la madre, incaricata di assemblare e cucire le decorazioni sui bordi.
Faith Ringgold ha presto arricchito i suoi dipinti tessili con testi ai margini della composizione centrale. Ad esempio, la serie di quilt intitolata «The French Collection» (1991-97), presentata nella quinta sala, racconta con parole e immagini le avventure romantiche di una giovane artista nera nella Parigi degli anni Venti. Faith Ringgold evoca una moltitudine di personaggi, da Gertrude Stein a Josephine Baker, Rosa Parks, Elizabeth Cattlet, Malcolm X o Pablo Picasso insieme a maschere Lega e Kwele, uno stemma Baga e una modella nera che posa per «Les Demoiselles d’Avignon». Era un modo geniale di includere nella storia della modernità l’antica arte africana che alimentava gli impulsi primitivisti di parte della scena occidentale di inizio Novecento, ma soprattutto degli artisti, scrittori e intellettuali afroamericani.
Negli anni Novanta ha dato sempre più importanza alla scrittura, pubblicando numerosi libri per bambini e un’autobiografia. La mostra si conclude con la sezione «Gospels e performance», che si concentra sulle maschere e le sculture molli che Faith Ringgold crea a partire dagli anni Settanta, per poi incorporarle in un progetto performativo più ambizioso, «The Wake and Resurrection of the Bicentennial Negro» (1975-89). Eseguito nelle università con l’aiuto di studenti, questo lavoro combina installazioni, racconti sulla condizione dei neri e stralci di discorsi di Martin Luther King o di canzoni di Aretha Franklin.
Sulle pareti di quest’ultima sala si scopre anche la serie «The American Collection» (1997) che fa il punto sui successi e i fallimenti di oltre trent’anni di lotte. Alla fine della visita, ci si rammarica di una cosa: che la retrospettiva non benefici di uno spazio più ampio per alleggerire la museografia a volte disordinata, ma soprattutto per offrire un corpus più ampio di quest’artista poco conosciuta in Europa, con un percorso affascinante e denso, strettamente legato alla storia della seconda metà del XX secolo.

«Picasso’s Studio. The French Collection Part I #7» (1991) di Faith Ringgold © Faith Ringgold / ARS, NY and DACS. Cortesia di ACA Galleries. Foto Tom Powel

«Slave Rape #2: Run You Might Get Away» (1972) di Faith Ringgold © Faith Ringgold / ARS, NY and DACS. Cortesia di ACA Galleries. Foto Tom Powel

«Early Works #25: Self-Portrait» (1965) di Faith Ringgold © Faith Ringgold / ARS, NY and DACS. Cortesia di ACA Galleries. Foto Tom Powel