Se si considera che Henri Matisse (1869-1954) ha rischiato di morire in seguito a un intervento chirurgico d’urgenza nel 1941 e che non ha goduto di buone condizioni di salute fino alla sua morte nel 1954, la produttività dei suoi ultimi decenni è ancora più sorprendente. Il corpus di opere più famoso degli anni Quaranta e Cinquanta è quello dei papiers-découpés, «la forma filtrata all’essenziale», come li definì Matisse. La Fondation Beyeler di Basilea ne possiede un nucleo, il che ha indubbiamente favorito la raccolta di prestiti stellari tra le 70 opere della mostra «Matisse: invito al viaggio», a cura di Raphaël Bouvier e aperta fino al 26 gennaio 2025.
I papiers-découpés sono, inevitabilmente, il magnifico culmine della rassegna. Ma altrettanto notevoli sono le ultime tele di Matisse, realizzate tra il 1946 e il 1948 in quella che Lydia Delectorskaya, sua compagna e assistente negli ultimi anni, ha definito «una vera e propria esplosione» di pittura avvenuta nella sua villa di Vence, in Costa Azzurra.
La sala della mostra dedicata agli interni di Vence e ai relativi dipinti di figure è commovente ed esaltante. Si tratta di dipinti fondamentali per comprendere il percorso della mostra. Infatti, nonostante questa rassegna rifletta l’attività di Matisse dagli anni Novanta dell’Ottocento agli anni Cinquanta del Novecento, il suo tema è il viaggio: i viaggi fondamentali nel Sud della Francia, in Italia, in Algeria e Marocco, in Polinesia e negli Stati Uniti. Ma altrettanto cruciali sono i viaggi di Matisse nell’immaginazione. Mentre realizzava i dipinti di Vence, l’artista avvertiva la «curiosità che deriva da un nuovo Paese». Si tratta di un’ultima, gloriosa avventura in quella che egli definì «l’avanguardia dell’espressione del colore».
Come i papiers-découpés, questi dipinti sono un distillato della lotta di Matisse per trovare forme essenziali e armonie di colore che trasmettessero i suoi sentimenti. Il suo lungo lavoro sulle relazioni cromatiche ha fatto sì che in esse egli sia in grado di utilizzare quasi tutte le tonalità, in qualsiasi combinazione, e sempre per trovare un equilibrio armonico e spaziale. In «Interno con tenda egiziana» (1948), l’artista usa il nero in quattro parti distinte: nei motivi del tessuto stesso a destra, nella descrizione dell’architettura interna oscurata contro la luce provenzale che filtra dalla finestra, come ombra sotto una ciotola di melograni su un tavolo rosa e come alcune fronde della palma al di là. Il dipinto, concepito da altri, sicuramente non reggerebbe. Eppure Matisse lo rende uno spazio credibile e trasmette la luminosa intensità della sua esperienza.
Un tale virtuosismo è stato conquistato con fatica; Matisse ha descritto la «severa preparazione» necessaria «per essere degni» di usare il colore. La mostra inizia con «La Desserte» (1896-97), in cui si percepisce la sua battaglia per ottenere tale obiettivo. Gli accenti coraggiosi abbondano (il tappo di un decanter cattura la luce con un pot-pourri di cremisi, arancio, rosa e viridi), ma l’effetto complessivo è smorzato. Affascinato da Paul Cézanne, Matisse non aveva ancora assorbito il tocco leggero del più anziano artista.
Rapidamente, siamo condotti a «Lusso, calma e voluttà» (1904), la risposta di Matisse a un’estate trascorsa a Saint-Tropez con Paul Signac, il pittore di cui il quadro incarna le teorie divisioniste. Il titolo dell’opera è tratto da un verso della poesia di Charles Baudelaire «Invito al viaggio», che dà il titolo alla mostra. È un dipinto strano: il primo capolavoro di Matisse, eppure anomalo. L’artista si allontana rapidamente da Signac nel 1905, liberandosi dalle costrizioni divisioniste a Collioure, sulla costa sud-occidentale della Francia. Il gruppo di dipinti di Collioure qui esposti riflette l’estatica liberazione del colore puro di Matisse. Tra questi, «La finestra aperta, Collioure» (1905), esposto al Salon d’Automne di Parigi nell’ottobre dello stesso anno, quando il termine «fauves» fu usato per la prima volta per descrivere Matisse e i suoi compagni di strada.
In questo periodo il ritmo del suo cambiamento è notevole: nel giro di due anni arriva «Bagnanti con tartaruga» (1907-08), in cui le macchie di colori intensi e i segni interrotti di «La finestra aperta» lasciano il posto a sereni campi di colore dietro a figure scultoree dure e goffe.
Una rara delusione nella mostra è l’assenza di altre opere dei viaggi di Matisse in Marocco nel 1912 e nel 1913 (ahimè, molte sono a Mosca). Mentre «Acanthus (Paesaggio marocchino)» (1912) è meraviglioso, nell’evocare la luce «pastosa» che l’artista notò in Nord Africa, tutti i blu e i rosa crepuscolari e i verdi lussureggianti e umidi: qui, a questo punto della mostra, si avverte un inevitabile senso di vuoto. Un maggior numero di opere del Marocco avrebbe permesso un confronto con la successiva sezione dedicata alle passioni sempre più orientaliste di Matisse a Nizza tra la fine degli anni Dieci e gli anni Venti, un periodo esplorato con forza dalla storica dell’arte femminista Griselda Pollock in un saggio in catalogo. Le opere di Nizza sono esposte accanto ai quattro schienali in bronzo, figure femminili di spalle, che Matisse realizzò tra il 1909 e il 1930, con un’astrazione progressivamente crescente. Questo accostamento rafforza la solidità quasi scultorea che Matisse infonde in alcune delle sue «odalische» di Nizza, in particolare la «Figura decorativa su fondo ornamentale» (1925-26). L’argomentazione persuasiva è che i dipinti di Nizza sono più radicali e moderni di quanto spesso si riconosca a Matisse, anche se ciò conferma lo sguardo spassionato e coloniale che Griselda Pollock identifica ma che non viene esplorato nella mostra stessa.
Questo sguardo è un contesto inevitabile per l’unico viaggio che Matisse stesso identificò come il suo «grande viaggio»: quello a Tahiti. Dato che l’opera di Paul Gauguin aveva esercitato un’influenza precoce e che Matisse aveva trascorso il decennio precedente a dipingere odalische, si può facilmente immaginare che si sia confrontato con Gauguin una generazione dopo. Tuttavia, Matisse, in questo caso, realizzò disegni ma non dipinti. I principali effetti del soggiorno a Tahiti, e forse soprattutto dei suoi viaggi negli Stati Uniti prima e dopo, sono gli audaci dipinti raffiguranti Lydia Delectorskaya, sua nuova assistente e modella negli anni Trenta. Qui emerge una rinnovata audacia e semplicità di forme e purezza di colori, esemplificata dal «Grande nudo reclinato (Il nudo rosa)» (1935).
Gravemente disabile negli anni Quaranta e Cinquanta, mentre realizza gli ultimi dipinti e i papiers-découpés, Matisse viaggia solo in quel «nuovo paese» mentale di colori e nei ricordi dei viaggi precedenti. Per la commissione di un arazzo nel 1946, egli diede finalmente pieno sfogo alle sue impressioni di Tahiti in «Océanie, le ciel» e «Océanie, la mer», primi esempi di papiers-découpés sulle pareti del suo studio che furono poi tradotti in serigrafie. Nel frattempo, in una bella assonanza che attraversa l’arco temporale della mostra, torna in Marocco con il grande «Acanthuses» (1953), uno dei papiers-découpés più spartani e al tempo stesso più luminosi, con i suoi ormai familiari motivi floreali in verde, giallo, rosso, blu e arancione.
La mostra «Invito al viaggio» è un’argomentazione convincente sull’effetto trasformativo dei numerosi viaggi di Matisse. Ma le «fantasticherie» che egli descrisse parlando delle opere «Océanie» furono altrettanto cruciali. Dopo la sua visita a Tahiti, disse che l’isola era entrata nei suoi sogni, aggiungendo che «questo è il valore del viaggio: allarga lo spazio intorno a noi». Per lui non si trattava semplicemente di uno spazio geografico, ma di uno spazio in cui sperava di poter spingere la sua arte in nuovi territori e a livelli più alti. E spesso ci è riuscito.