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La Sala dei Bronzi così come appariva fino al 1912. Fototeca del Governatorato, Soprintendenza Città del Vaticano

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La Sala dei Bronzi così come appariva fino al 1912. Fototeca del Governatorato, Soprintendenza Città del Vaticano

IL MUSEO INFINITO | Museo Gregoriano Etrusco

Storia, opere e luoghi dei Musei Vaticani, a cura di Arianna Antoniutti. La Sala dei Bronzi

Maurizio Sannibale

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Prosegue l'iniziativa che i Musei Vaticani e Il Giornale dell’Arte dedicano a un visitatore ideale: un viaggio dentro il «Museo infinito» accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni. Il Giornale dell’Arte ospiterà ogni settimana un testo originale elaborato dai curatori dei Musei Vaticani. Dopo aver illustrato la nascita del Gregoriano Etrusco, e averci condotto nelle prime due Sale del Museo, il direttore Maurizio Sannibale ci accompagna nella Sala dei Bronzi.

La Sala III del Museo Gregoriano Etrusco è una Sala tematica, per l’appunto dedicata ai Bronzi, ma al cui interno possiamo identificare dei sottoinsiemi. Partiamo ad esempio con una sezione che potremmo definire di vita quotidiana, al cui interno abbiamo un’ampia selezione di vasi di varie fogge, i cui esemplari più antichi risalgono addirittura all’orientalizzante, sino ad arrivare all’epoca ellenistica.

L’estrema abilità degli artigiani e la loro inesauribile fantasia trova espressione anche nei vasi, nelle cui anse prendono forma animali e figure umane. Il vasellame per contenere e servire cibi e bevande presenta una ricercata diversificazione funzionale. Particolarmente complesso il mondo del vino, consumato diluito con acqua all’uso greco e servito con vasi dalle specifiche funzioni secondo tradizioni secolari: anfore e stamnoi per contenerlo, crateri per miscelarlo con l’acqua, oinochoai per versare, simpula per attingere e servire, colini per filtrare, calici e coppe per bere.
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Sull’impiego di questi vasi è necessaria una puntualizzazione: sebbene essi non manchino di riflettere alcuni aspetti concreti della vita quotidiana degli etruschi, non dobbiamo dimenticare che si tratta di una immagine mediata dalle tombe, ambienti ad alto contenuto rituale. In questo senso, quindi, vanno interpretati i corredi di vasi, elementi di pregio e talvolta non di uso comune, destinati al banchetto nell'aldilà del defunto, idealmente unito a quello dei vivi, oppure realmente utilizzati nella cerimonia funebre.

A un uso prettamente rituale sembra destinata ad esempio una oinochoe dalla tipica forma biconica, forse utilizzata per un tipo particolare di vino, non diluito e di impiego sacrale, come suggerisce una celebre icona incisa su uno specchio. La vediamo infatti ai piedi di un aruspice etrusco, intento a trarre vaticini attraverso l’osservazione del fegato di un animale sacrificato, un microcosmo in cui ogni parte era occupata da una divinità specifica, così come avveniva nella volta celeste. Il sacerdote, alato come lo sono gli esseri divini, dato che sta transitando nel sacro, porta il nome del mitico indovino greco Calcante, Chalchas in etrusco.

Non dimentichiamo poi, per quanto concerne gli etruschi e la sfera del sacro, come la tomba non costituisse solo l’ultima dimora del defunto, ma fosse anche un’area di confine, una sorta di zona franca che metteva in comunicazione il mondo degli uomini con il limite invalicabile dell’oltretomba. In questo contesto, grandissima importanza riveste la concezione del banchetto traslato nell'aldilà, come lo vediamo raffigurato nelle pitture tombali ben sedimentate nel nostro immaginario, come pure riflesso in un servizio per il simposio di età ellenistica proveniente da una tomba presso Bolsena che risale al 330-300 a.C. Qui molti dei vasi conservano i chiodi di ferro con i quali erano infissi alla mensa infera, cui erano quindi consacrati. A ricordarcelo è l’iscrizione larisal harenies śuthina «per la tomba di Laris Harenies» presente su alcuni di essi, che ci tramanda anche il nome del defunto.
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Ancora alla sfera della convivialità ci riporta una vetrina tematica contenente candelabri e thymiateria, ossia bruciaprofumi. I primi, con la luce tremula delle candele rischiaravano il simposio, come vediamo in una celebre pittura della tomba Golini di Orvieto, i secondi spandevano profumi per il piacere degli uomini, insieme a quello del vino e della musica, e come richiamo al mondo degli dei, ai quali durante il simposio potevano essere offerti incenso e libagioni. Lo stesso avveniva per i defunti. In entrambe queste classi di oggetti risaltano l’abilità e la fantasia degli artigiani nella combinazione di elementi vegetali, zoomorfi e antropomorfi, mentre statuette di atleti, guerrieri, danzatori e divinità vanno a coronare i candelabri.

Affine a questi oggetti è il kottabos, uno strumento dotato di fusto su base, con piattelli e un bersaglio mobile sulla sommità, usato per una sorta di gioco che si praticava durante il simposio, che vedeva i commensali impegnati a colpire il bersaglio lanciando del vino da una kylik fatta roteare. Non ne conosciamo le regole esatte, ma lo vediamo più volte raffigurato su vasi greci rinvenuti in Etruria, che sono presenti anche nel nostro museo. In generale, il simposio è dunque un uso greco che troviamo adottato anche presso gli etruschi, con una variante sostanziale: questi ultimi vi ammettevano anche le consorti. Sempre sul tema del banchetto, va segnalata una serie di bracieri e strumenti da fuoco, esempi notevoli della bronzistica etrusca. Insieme alla destinazione pratica per arrostire il cibo, essi dovevano assolvere a una funzione rituale se deposti nelle tombe e usati per bruciare offerte.

Soffermandoci intorno al 500 a.C., sono gli anni in cui si plasma l’Apollo di Veio (510 a.C.), troviamo peculiari manifestazioni di artigianato artistico, come ad esempio alcune borchie provenienti da Tarquinia, decorate con una testa di leone o della divinità fluviale Acheloo. O, ancora, un tipico tripode realizzato da una bottega di bronzisti a Vulci con rilevanti punte di fantasia. Basterebbe osservare che è sostenuto da zampe di leone che poggiano a loro volta su una rana quasi a schiacciarla, prima di passare alle composizioni di palmette, fiori di loto, ghiande, volute, ai rilievi con felino in assalto, ai gruppi plastici narrativi. Una coppia di Sileni insegue Era (etrusco Uni) che è soccorsa da Eracle (etrusco Hercle). Altrove, sull’anello di base, si susseguono gaudenti figurine di Sileni semisdraiati a banchetto.

Sempre in questo percorso attraverso la casa e la vita degli etruschi, arriviamo agli oggetti legati alla cosmesi e alla cura del corpo. Tra essi spiccano gli specchi, ovviamente in bronzo, da sempre oggetto di interesse per le raffigurazioni finemente incise sul lato non riflettente. Ben rappresentati sono il mito e gli dei della Grecia, i nomi però quando compaiono sono in etrusco, come in questo caso celebre con Eracle e Atlante che sostiene la sfera celeste sulle spalle.
Non mancano dei e demoni più autenticamente etruschi, come pure scene di vita reale come in uno che mostra una coppia di coniugi nel simposio.
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Correlate agli specchi abbiamo poi le ciste, lussuosi contenitori istoriati con decorazione incisa, che potevano contenere specchi e cosmetici. Una grande cista ovale, rinvenuta Vulci e datata verso il 300 a.C., riproduce a sbalzo una concitata scena di combattimento tra greci e amazzoni. La cista è completata da un coperchio dal manico estremamente fantasioso: un uomo e una donna cavalcano al contrario una coppia di oche unite per la coda, guardandosi in elegante volteggio, quasi un gioco o una danza in cui forse si dilettano Afrodite e Adone.

Prendendo spunto dal combattimento mitico, mi soffermerei ora su una vetrina dedicata all’esercizio delle armi e al mondo della guerra. Qui vediamo raccolte armi e finimenti equini di varie epoche che, in qualche modo, ripercorrono la vicenda millenaria del popolo etrusco: dalle punte di lancia protostoriche, fino all’apogeo della potenza etrusca tra il VI e V secolo avanti Cristo. A questo periodo risale il caratteristico elmo «nazionale» etrusco, di tipo Negau, dalla forma carenata, una sorta di robusto morione. Due elmi dello stesso tipo sono stati scoperti nel santuario di Olimpia: recano incisa la dedica di Gerone di Siracusa, che li aveva offerti dopo la vittoria greca sugli Etruschi nella battaglia navale di Cuma del 474 a.C.

In esposizione abbiamo inoltre un’armatura oplitica completa, distintiva di un guerriero che non combatteva isolatamente, come un eroe, bensì schierato a ranghi serrati. Dettaglio questo che ci offre anche una dimensione politica della tecnica militare in Etruria, mutuata dalla Grecia, basata su una solidarietà tra pari che non lasciava spazio all’iniziativa individuale. L’armatura completa si componeva, oltre all’elmo, di uno scudo, che copriva la parte centrale del corpo, di schinieri, sempre in bronzo, che ne difendevano la parte inferiore e, come armi d’offesa, ritroviamo poi lance e spade. Si utilizzavano pure, e qui ne abbiamo esemplari interessanti, corazze che rivestivano il torso e ne riprendevano fedelmente l'anatomia.

Altro dettaglio interessante e sostanzialmente unico è che, di uno scudo qui esposto, resta ancora conservato il rivestimento interno di legno rivestito da pellame finemente decorato con motivo a palmette. Proseguendo di vetrina in vetrina, affrontiamo un nuovo excursus dedicato all’ambito del sacro, attraverso una collezione di bronzi votivi. Si tratta qui di immagini a figura umana, non mancano altrove anche quelle animali, che possono raffigurare una particolare divinità come pure comuni devoti,  siano essi armati, oppure recanti offerte dal mondo animale e vegetale in relazione con il culto, o in atto di compiere un’azione rituale versando del vino a terra.

Tra i bronzi votivi spiccano il putto Graziani e il putto Carrara, delle vere e proprie statue di dimensioni ridotte realizzate a fusione cava, diversamente dai bronzetti a fusione piena che le circondano. Entrambi raffigurano un fanciullo seduto, un genere votivo che, sebbene ben radicato in Etruria, riporta a Cipro e alla Grecia. La bulla che portano al collo è invece un tipico monile etrusco,  elemento distintivo e sorta di amuleto per i giovani di rango fino al raggiungimento dell’età adulta.

Il putto Carrara, che si data verso la fine del IV sec. a.C., fu rinvenuto nell’area urbana dell’antica Tarquinia nel 1770. La dedica menziona due divinità, Silvano (Selvans) e forse Śuri di cui resta il nome incompleto, entrambe là venerate stando a un’epigrafe. Selvans, legato alle forze primigenie della natura, è tutelare della fertilità dei suoli e anche dei confini, inclusi quelli degli inferi. Non stupirebbe quindi la sua associazione con Śuri, etimologicamente il «nero», una sorta di Apollo infero del pantheon etrusco, venerato nel santuario di Pyrgi insieme alla sua paredra Cavatha, assimilabile alla greca Persefone. In presenza di un volto che non sembra totalmente di un ragazzo, la statua è stata ipoteticamente identificata con il mitico Tagete, il veggente fanciullo con la saggezza di un anziano che proprio a Tarquinia, prodigiosamente emerso dalla terra arata, rivelò i fondamenti della religione etrusca poi codificata in libri sacri. Il putto doveva essere fissato in antico su una base di pietra attraverso la colata di piombo che ancora conserva.

Si può avere un’idea di queste basi con i votivi che popolavano le aree sacre attraverso quelle, per lo più spoglie dei bronzi originari, rinvenute nel santuario di Campo della Fiera ad Orvieto, il «luogo celeste» o faliathere in etrusco come lo definisce una dedica, che solo in anni recenti è stato identificato con il Fanum Voltumnae, ossia il santuario federale e centro ideale della nazione etrusca situato presso l’antica Volsinii, poi profanato dai romani nel 264 a.C. Più recente è il Putto Graziani, datato alla metà del II sec. a.C., rinvenuto nel 1587 a Sanguineto sul Lago Trasimeno. Il celebre bronzo, che vanta ormai cinque secoli di storia collezionistica (e di bibliografia!), giunse nel museo solo nel 1841, dopo essere passato attraverso le collezioni di importanti famiglie perugine. Come dice l’iscrizione, è dedicato alla divinità etrusca Tec Sanś, protettrice dell’infanzia, di cui esisteva nell’area un luogo di culto.
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Nella stessa vetrina trovano poi spazio altri elementi dal più generale interesse antiquario, come parti di mobilio oppure, risalendo nel tempo, una serie di asce protostoriche di bronzo rinvenute all’interno di quelli che vengono chiamati ripostigli, ossia luoghi in cui, nella protostoria, si accumulavano manufatti in bronzo come riserva o come tesoro.Giungiamo infine al nostro monumento principe, il cosiddetto Marte di Todi che, oltre ad essere uno dei pochi esempi di statuaria bronzea originale pervenutici dall’antichità classica, ha anche il pregio di rappresentare al contempo un capitolo dell’arte etrusco-italica. Fu rinvenuto a Todi, nella località di Monte Santo, dove forse sorgeva un santuario extraurbano.L’iscrizione in lingua umbra, ma in alfabeto etrusco, Ahal Trutitis dunum dede ricorda che questa statua fu data in dono, offerta (dunum dede) da un certo Ahal Trutitis, forse un personaggio di origine celtica.

Il guerriero che raffigura sta in realtà compiendo un’azione rituale: mentre con una mano impugnava l’asta di una lancia, nell’altra teneva una patera (che per motivi conservativi è esposta nella vetrina a fianco) nel gesto di versare del vino come libagione. Dal punto di vista tecnologico, il Marte è molto interessante perché rappresenta una summa della tecnica bronzistica antica di tradizione classica, che troviamo compendiata, ad esempio, anche in opere molto note come i Bronzi di Riace. La datazione della nostra statua si pone verso gli ultimi decenni del V secolo avanti Cristo, quando è ancora viva l’atmosfera della piena classicità e l’opera ne mantiene tutte le caratteristiche salienti con i suoi richiami al ritratto idealizzato e alla ponderazione della scuola di Fidia e a generiche citazioni di Policleto nel modellato.

Ci troviamo di fronte a un bronzo cavo internamente, realizzato con la tecnica della cera persa, non a fusione unica, bensì tramite la realizzazione di parti separate – la testa, gli arti, il torso, persino la metà anteriore del piede sinistro ‒ che venivano poi successivamente saldate. La tecnica della saldatura, insieme all’elaborazione di sofisticate tecniche fusorie dalla formatura al getto, è una conquista tipica della classicità che permise la realizzazione della grande statuaria in bronzo, che dalla Grecia passò anche al mondo romano. Alla fine del mondo antico essa non è più documentata, tant'è che nel Medioevo e nel Rinascimento si fondevano le opere con la fusione unica. Ciò significa che per secoli, abbiamo guardato alla bronzistica del mondo antico più con l’occhio di Cellini che con l'occhio di Fidia.
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In questo capolavoro sono molti i dettagli degni di nota, dai riccioli della capigliatura, finemente cesellati, alla componente polimaterica che a noi oggi sfugge, offuscata com’è dalla patina antica che riveste tutto il bronzo. Pensiamo solo alle labbra, realizzate in rame e inserite nel modello di cera per essere poi inglobate dalla fusione del bronzo: una procedura complessa adottata al fine di introdurre un elemento coloristico e non solo. Probabilmente in questa bocca dischiusa, come nei Bronzi di Riace, erano applicati dei denti in argento, per renderla ancora più realistica. Allo stesso modo, gli occhi erano realizzati da artigiani specializzati con più materiali differenti, andando a riprodurre il più fedelmente possibile l’occhio umano in tutta la sua espressività. Del nostro Marte abbiamo potuto recuperare l’originale di un occhio, ora esposto, sempre per ragioni conservative, in vetrina. Tali dettagli, impressionanti nella loro restituzione realistica, aggiungevano non solo un elemento coloristico ma propriamente espressivo, donando praticamente l’anima alla statua.

Un elemento invece mancante nella statua è l’elmo, che vediamo ancora nelle foto storiche. In realtà l’elmo delle foto d’epoca non era antico: si trattava di una ricostruzione dell’artista Thorvaldsen ed è stato asportato, per motivi filologici, nei primi decenni del Novecento. Non sappiamo che tipo di elmo indossasse il Marte ma, vista la sua aderenza ai canoni ellenici, possiamo escludere un elmo di tipo etrusco.Un altro aspetto interessante dell’opera, che si lega alla storia della critica d'arte, è che essa è stata accreditata un tempo, retoricamente, come una genuina manifestazione artistica etrusco-italica, quasi un «primo italiano» in armi, partendo da una affermazione di Plinio a proposito delle statue di efebo con l’asta, nude secondo il canone dei greci, mentre i romani in quanto soldati gli aggiungevano la corazza. In realtà tutto ciò perde di senso se osserviamo l’anfora del pittore di Achille, immagine per eccellenza della piena classicità nell’Atene della metà del V secolo avanti Cristo, che noi abbiamo qui esposta nel museo, in cui Achille è raffigurato in maniera assai prossima al Marte di Todi.

Difatti il Marte, che venne probabilmente realizzato da una bottega dell’etrusca Orvieto, presenta una perfetta adesione al canone ideale ellenico, anche nell’iconografia della nudità eroica, appena celata dal corto gonnellino, proprio come l’Achille dipinto sull’anfora.Per tornare agli aspetti tecnologici della statua, possiamo chiederci dove fosse collocata. Si è pensato che potesse essere posta su di un alto basamento. Questo appare molto verosimile soprattutto perché andrebbe a giustificare alcune imperfezioni apparenti, a noi ora evidenti ad altezza d’uomo. Il collo eccessivamente lungo, piuttosto che far sospettare un’imperizia dell'artigiano, sembrerebbe un aggiustamento ottico per chi doveva osservare dal basso la statua. In tal senso si spiega anche l’altra apparente imperfezione, ovvero la gamba sinistra flessa che risulta più lunga della destra sulla quale poggia la figura. La sproporzione, nascosta dall’altezza,  deriva dalla necessità di dover meglio vincolare alla base anche il piede sinistro, facendolo poggiare sull’intera pianta anziché sulla punta, per evitare rischi di caduta per la statua.

Ad ogni modo la statua è sicuramente incorsa in un incidente. Un incidente che per nostra fortuna ha fatto sì che l’opera giungesse sino a noi. Il Marte fu sepolto in antico in una fossa protetta da lastre di travertino, forse dopo essere stato colpito da un fulmine. L’aspetto della fossa ricorda infatti un fulgur conditum, la sepoltura rituale del fulmine, manifestazione della divinità, attraverso gli oggetti da esso colpiti. Il Marte venne dunque rinchiuso in una sorta di cassone e sotterrato e in quel medesimo cassone, a distanza di secoli, fu rinvenuto nel 1835, in una data prossima, dopo il lungo oblio, alla fatidica inaugurazione nel 1837 del Museo Gregoriano Etrusco.
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Una veduta della Sala dei Bronzi nel suo allestimento attuale

«Bacile del servizio da Simposio di Paris Harenie», Sala dei Bronzi, Museo Gregoriano Etrusco, Città del Vaticano

«Cista ovale con Amazzonomachia», Sala dei Bronzi, Museo Gregoriano Etrusco, Città del Vaticano

«Marte di Todi», Sala dei Bronzi, Museo Gregoriano Etrusco, Città del Vaticano

«Putto Graziani», Sala dei Bronzi, Museo Gregoriano Etrusco, Città del Vaticano

«Putto Carrara», Sala dei Bronzi, Museo Gregoriano Etrusco, Città del Vaticano

Maurizio Sannibale, 13 luglio 2022 | © Riproduzione riservata

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