Claudia Lega
Leggi i suoi articoliIn questo viaggio nel «Museo infinito», entriamo con Claudia Lega nel Museo Profano, gabinetto di antichità settecentesco fondato da Clemente XIII su impulso del cardinale Alessandro Albani.
Il Museo viene inaugurato nel 1767 ma la sua nascita formale risale al 1761, quando Clemente XIII con la Cedola di moto proprio ne sancisce la creazione. Ed è proprio il 1761 l’anno in cui diviene cardinale bibliotecario Alessandro Albani, celebre collezionista, amante delle arti e delle antichità e anima di questa raccolta. Il Museo Profano viene realizzato in rapporto dialettico con il Museo Cristiano di Benedetto XIV, al capo opposto delle Gallerie dell’antica Biblioteca Vaticana, per trovare sistemazione principalmente al consistente nucleo di oggetti della collezione Carpegna che, per il loro valore «profano», non avevano trovato posto all’interno del Museo Cristiano: in primo luogo il famoso medagliere Carpegna, e poi la grande raccolta di avori, cammei, pietre dure e bronzetti sempre dalla medesima collezione.
Il primo passo per la costituzione del museo è la creazione dell’ambiente che lo ospita. La realizzazione viene affidata a Carlo Marchionni, architetto personale dell’Albani. Nella Sala (un gioiello architettonico settecentesco, un vero cabinet di antichità, in cui antico e moderno si amalgamano in un insieme armonico, creando una nuova opera d’arte) si riconoscono il gusto estetico e la mente ideatrice del Cardinale Bibliotecario.
Le pareti, rivestite di marmi, inframmezzati da specchiature in finto marmo, e ornate di stucchi, sono mosse da nicchie, mensole e rientranze destinate ad ospitare le opere o il mobilio che doveva contenerle. Il disegno del pavimento in pregiati marmi policromi si ripete sulla volta, decorata da stucchi e finti marmi, che reca al centro «L’Allegoria del Tempo» di Stefano Pozzi, allusiva alla fondazione del museo, dove Minerva ordina al Genio di Roma di sottrarre al Tempo le vestigia dell’Antichità.
Per esporre le opere vengono approntati, sotto Clemente XIII, due armadi, posti al di sotto delle finestre, corredati da sportelli in cristallo con cornici in bronzo dorato. Vi erano poi due credenzoni di fico d’india, uno messo a disposizione dall’Albani e l’altro di più recente realizzazione, in cui erano contenute le collezioni di monete e medaglie. In particolare: il medagliere Albani e il medagliere Carpegna.
La sistemazione definitiva della sala e delle antichità si deve a Pio VI, che fa realizzare dalla bottega di Andrea Mimmi, forse su disegno del famoso argentiere romano Luigi Valadier, i magnifici quattro armadi a vetrina, finemente intarsiati con legni pregiati, decorati da applicazioni in bronzo dorato e sostenuti da quattro gambe «à cabriole», intagliate con testa e zampe di leone.
Nelle loro ante interne trovano collocazione, accanto a tre «tabulae patronatus» in bronzo (una rinvenuta a Roma, sull’Aventino e due da Sassoferrato nelle Marche) e al «missorium» in argento del tesoro del Celio prelevato dal Museo Cristiano (oggi restituito al suo contesto nella collezione cristiana e sostituito nell’anta da una copia), gli avori, i cristalli di rocca, i vetri prevalentemente della collezione Carpegna, fissati su piani di lavagna rivestiti di scagliola, impreziositi e incorniciati da raffinate decorazioni in stucco.
All’interno di questi splendidi armadi, ornati sulla sommità da statuine bronzee in gran parte della collezione Carpegna, vengono sistemati gli stipetti con le medaglie e la serie spettacolare di legature e montature realizzate per i cammei e gli intagli della collezione Carpegna da Luigi Valadier, che nel 1779 era stato nominato «Soprintendente alli restauri di bronzi antichi e legature di Camei dei due Musei Sacro e Profano».
Purtroppo questa preziosa raccolta viene in gran parte spogliata dai francesi e portata a Parigi negli anni finali del Settecento. L’arrivo dei francesi nel 1798 è infatti traumatico per il Museo, che viene ampiamente depredato delle opere più preziose e del medagliere. Così i cammei e gli intagli nelle splendide montature realizzate da Valadier, compreso il famoso Cammeo Gonzaga, appartenuto alla regina Cristina di Svezia, ultimo acquisto di Pio VI, prendono definitivamente la via della Francia. Solo pochi, di minor conto, rientrano in collezione dopo la sconfitta definitiva di Napoleone e il Congresso di Vienna.
La Sala del Profano (privata del suo contenuto e con gli armadi svuotati) all’inizio dell’Ottocento viene riallestita con il materiale rimasto: i bronzetti della raccolta Carpegna, integrati dal materiale rinvenuto nei numerosi scavi pontifici compiuti sotto Pio VI e incrementati con i reperti delle indagini portate avanti a Roma e nello Stato Pontificio, sia negli anni del governo francese, sia sotto Pio VII.
A questo pontefice si deve la realizzazione del prospetto architettonico di accesso al Museo verso la Galleria Clementina, con l’inserimento delle due statue leontocefale nelle nicchie. Una di esse faceva parte della collezione Albani, l’altra invece, acquisita il 5 ottobre 1804, era stata rinvenuta a Ostia negli scavi del «Mitreo Fagan», in una data incerta compresa tra il 1794 e il 1802.
Sempre nel primo quindicennio dell’Ottocento, all’interno della Sala, nelle nicchie ai lati delle due porte d’accesso, vengono posti i quattro busti bronzei di imperatori: l’unico antico è quello di Balbino, rinvenuto nel 1771 sull’Appia, nella Vigna Casali a San Sebastiano e donato nello stesso anno da monsignor Antonio Casali, governatore di Roma, a papa Clemente XIV; i busti di Augusto, Nerone e Settimio Severo sono invece realizzazioni moderne.
Nel 2013 sia la Sala sia le raccolte del Museo Profano hanno subito una nuova sistemazione, con un’espansione dell’allestimento negli ambienti della Galleria Clementina. L’antico gabinetto settecentesco è stato riservato principalmente, sebbene con alcune eccezioni, ai materiali risalenti alle collezioni originarie del Museo (Carpegna, Vettori, Buonarroti ecc.), cercando di ricreare, per quanto possibile, l’esposizione riferibile al primo inventario ottocentesco, che appare contraddistinta da uno spiccato gusto coloristico: all’interno delle vetrine infatti i bronzetti erano inframmezzati a bustini in pietra dura di vari colori, mentre il mosaico con cervo e uccelli in opus vermiculatum, racchiuso nella bella cornice in bronzo dorato realizzata da Luigi Valadier, era accostato a reperti in avorio.
Fra i molteplici oggetti esposti, nelle vetrine e nelle ante composte dal Valadier, abbiamo busti e testine in avorio, decorazioni di mobilio, aghi crinali, bambole, come la bella bambola eburnea con capigliatura a elmo, purtroppo priva degli arti articolati perduti, inquadrata fra la fine del III e gli inizi del IV secolo dopo Cristo. O ancora la statuetta cosiddetta di Sethon – in realtà un’offerente femminile del VI secolo avanti Cristo – che, rinvenuta nelle vicinanze dell’antica Paestum e acquisita dall’erudito lucchese Paolo Antonio Paoli, fu da lui pubblicata nel 1771, come copia della statua in pietra del re dell’Egitto Sethon, sacerdote di Efesto, recante un topo nella mano, ancora visibile al tempo di Erodoto nel santuario della divinità a Menfi.
Secondo il racconto di Erodoto, il re aveva salvato gli egiziani invocando l’aiuto del suo dio contro l’esercito assiro di Sennacherib: un esercito di topi, mandato dalla divinità, aveva rosicchiato le parti in cuoio e legno delle armi dei nemici, costringendoli alla fuga. Nel 1778 Paoli dona a Pio VI la statuetta, assieme ad alcuni topolini bronzei e una gemma, di età romana, della sua collezione, che, forse sempre ad opera di Valadier, vengono montati assieme, in un elegante pastiche, su di un piedistallo in rosso antico e porfido rosso, con ornati in bronzo dorato, sulla cui fronte, sotto l’iscrizione SETHON in bronzo dorato, sono incisi in una tabellina ansata, sempre di bronzo dorato, i versi di Erodoto.
Ancora da ricordare è la statuetta bronzea cosiddetta «Selvans Carpegna», datata alla fine del IV secolo avanti Cristo e corredata sulla gamba da un’iscrizione etrusca di dedica a Selvans, divinità etrusca, che ritrovamenti e iscrizioni connettono ai confini, permettendo di accostarlo al «Silvanus finium» del Pantheon Romano, venerato quale protettore di limiti e di confini tra le città e forse anche tra i popoli. È una delle poche opere bronzee della collezione Carpegna, di cui si conosce la provenienza: la località Scavolino nel Comune di Pennabilli (Rn), all’interno di quelle che erano le tenute Carpegna nel Montefeltro, al confine tra la Romagna e le Marche.
I restanti materiali sono esposti nella Galleria Clementina, così ripartiti: settore enciclopedico, destinato a illustrare l’ampiezza degli interessi collezionistici del Museo; scavi ottocenteschi nello Stato Pontificio; scavi settecenteschi nello Stato Pontificio; settore tematico con materiali di epoca preromana, romana e tardo antica di provenienza ignota, o nota, ma non compresa nelle sezioni precedenti.
Afferiscono prevalentemente alla classe dell’«instrumentum domesticum» e ci avvicinano quindi alla vita quotidiana degli antichi abitanti della nostra penisola, dall’età preromana al tardo antico, riportandoci all’interno delle case, delle botteghe, dei santuari, delle tombe e dandoci informazioni sugli usi, costumi e rituali.
Vi si trovano statuine, utensili, mobilio, oggetti da toeletta e di decoro personale, oggetti che appartengono al mondo militare, come le falere (ornamenti dati come onorificenza a militari che si erano particolarmente distinti per il loro valore), o all’organizzazione urbana, alla distribuzione idrica, oppure alla vita domestica. E ancora oggetti pertinenti alla sfera sepolcrale, alla sfera sacra e a quanto può essere riferito alla vita economica e lavorativa: pesi, bilance, zappe, picconi, strumenti medici, compassi, timbri, anfore per trasporto di derrate.
Alla grande statuaria afferiscono invece la testa e l’avambraccio di statua crisoelefantina, raffigurante Atena, da considerare tra le opere principali della collezione. Furono ritrovati nel 1824 in Sabina nella sontuosa villa dei Bruttii Praesentes, importante famiglia dell’entourage dell’imperatore Adriano. I primi studi volevano attribuirli a un originale fidiaco, mentre più recentemente sono stati riconosciuti come una realizzazione di età adrianea.
Infine, ricordo i numerosi materiali reperiti a Pompei durante la visita di Pio IX agli scavi della cittadina campana e successivamente donati al pontefice da Ferdinando II di Borbone, assieme ad alcuni reperti presi, ad integrazione, dalle collezioni del Museo Nazionale di Napoli. Una parte è ancora esposta nella vetrina storica, su cui un’iscrizione a lettere in bronzo dorato ricorda il donativo.
Sono vasi, vetri, lucerne, borchie, chiodi, una piccola macina ecc. ma sicuramente il pezzo più prestigioso è il rilievo con cavaliere in marmo pentelico, originale greco della metà del IV secolo a.C. Il ritrovamento di quest’opera a Pompei fece supporre che non provenisse dalla cittadina campana, ma da Tindari.
Conservata nel Museo di Napoli, secondo quest’ipotesi, sarebbe stata posta nello scavo per rendere più interessante il rinvenimento fatto sotto gli occhi del pontefice. Il rilievo, invece, portato dalla Grecia, secondo un uso consueto in epoca romana, era probabilmente nella bottega pompeiana, dove fu trovato, in attesa di una lavorazione che lo adattasse per essere posto come pregiata decorazione all’interno di una domus.
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti