Claudia Lega, Maria Serlupi Crescenzi
Leggi i suoi articoliCon Claudia Lega entriamo nella Sala che conserva testimonianze dell’arte pittorica romana, mentre Maria Serlupi Crescenzi ci illustra planisferi e globi conservati nella collezione degli strumenti scientifici del «Museo infinito».
La Sala delle Nozze Aldobrandine, già detta «del Sansone», dal soggetto dei dipinti realizzati da Guido Reni sulla volta, venne destinata da Gregorio XVI nel 1838 a ospitare le testimonianze di pittura ad affresco di età romana, in stretta connessione e a completamento della sistemazione voluta dallo stesso Papa dell’importante collezione di opere pittoriche cristiane di età medievale, la raccolta cd. dei Primitivi, posta nell’ambiente appena adiacente (che dalla fine del XIX secolo accoglierà invece gli Indirizzi inviati ai pontefici e assumerà il nome di Sala degli Indirizzi).
La Sala di pittura romana prende la sua attuale denominazione dal famoso affresco, ritrovato nel 1601 sull’Esquilino nell’area probabilmente della demolita chiesa di S. Giuliano (zona di Piazza Vittorio Emanuele), entrato nella collezione del Cardinale Pietro Aldobrandini ed esposto in un padiglione appositamente eretto dall’architetto Carlo Lombardo nella Villa Aldobrandini a Magnanapoli.
Databile all’ultimo quarto del I secolo avanti Cristo, rappresenta una scena nuziale variamente interpretata dagli studiosi che si sono succeduti dal XVII secolo a oggi. Si sono ravvisati nel dipinto riferimenti alle nozze di figure mitologiche (quali ad esempio quelle Peleo e Teti o di Dioniso e Arianna), ovvero storiche (tra le altre, quelle di Alessandro Magno e Rossane, o dei sovrani macedoni Demetrio Poliorcete e Phila) oppure letterarie (come quelle di Lucio Arrunzio Stella e Violentilla, cantate dal poeta Stazio, o quelle di Manlio e Giulia, celebrate da Catullo).
Non è mancato poi chi ha riconosciuto nel dipinto il mito di Fedra e Ippolito. La critica più recente è orientata nel leggervi una scena di genere, sul tipo di molte presenti nella pittura romana, perfettamente inquadrata nel clima augusteo di ripristino dei costumi e di recupero dei valori matrimoniali. L’affresco, che doveva correre a guisa di fregio, nella zona superiore di una parete di Terzo Stile, dopo il suo rinvenimento è stato oggetto di pesanti sovradipinture, rimosse a partire dall’Ottocento in diversi restauri (l’ultimo dei quali risale al 1962, quando l’affresco fu distaccato dalla porzione di muro in reticolato, retrostante); in vari punti permangono comunque visibili ritocchi pittorici.
Acquisito da Pio VII nel 1818, il dipinto in principio era stato posto nell’Appartamento Borgia e poi nel 1838 trasferito nella sala attuale assieme agli affreschi delle cosiddette «Eroine di Tor Marancia»: Canace, Mirra, Fedra, Pasifae e Scilla, figure femminili mitiche che, per aver compiuto atti contro natura, si danno la morte.
Queste ultime pitture, appartenti a epoca più tarda e databili tra la seconda metà del II e la prima metà III secolo dopo Cristo, erano poste a decoro delle pareti di un ambiente della villa di età imperiale di Numisia Procula, ritrovata a Tor Marancia nella Tenuta della duchessa Marianna di Chablais, negli scavi condotti dal marchese Biondi dal 1817 al 1823. Le affianca nell’allestimento una figura femminile che per lungo tempo è stata ritenuta la sesta delle eroine, ma in realtà proviene dalla Tenuta di San Basilio, nei pressi della via Nomentana (scavi 1810), e si data al I-II secolo dopo Cristo.
Con Pio IX, tra il 1853 e il 1855, fanno ingresso nella Sala i celebri affreschi dell’Odissea di Via Graziosa, ripartiti in quell’occasione in quattro grandi quadri distinti con cornici dorate. Erano stati trovati, tra il 1848 e il 1849, sulle pendici del Cispio digradanti verso il lato Nord-Est di via Graziosa (odierna via Cavour) e dovevano ornare le pareti di un imponente porticato, pertinente a una importante domus aristocratica di epoca repubblicana, offrendo una finta apertura su di un panorama mitico.
Dei dipinti, che raccontano pittoricamente il ciclo dell’Odissea, rimangono otto vedute paesaggistiche, che si aprono alla vista sullo sfondo di un finto doppio porticato a pilastri in prospettiva e illustrano le peregrinazioni di Ulisse, tratte dal X al XII libro: l’arrivo di Ulisse nel paese dei Lestrigoni, la distruzione delle navi da parte dei Lestrigoni stessi, la fuga della nave di Ulisse, l’arrivo sull’isola di Circe, la trasformazione dei compagni dell’eroe prima in porci e poi di nuovo in uomini (pannello illeggibile), la discesa di Ulisse nel mondo degli Inferi. Ad esse va correlato un ulteriore frammento con Ulisse e le Sirene, confluito nella collezione Gorga e ora collocato presso il Museo Nazionale Romano.
Le scene che ci sono pervenute erano parte di un ciclo più ampio, che originariamente doveva avere un’estensione di circa 12 metri e che doveva essere collocato a un’altezza di 3 metri e 50 dal pavimento del portico. La realizzazione di questo decoro parietale, in cui sono state riconosciute le mani di due diversi pittori, uno maggiormente attento ai dettagli, l’altro più impressionistico, si inserisce tra gli esempi più elevati di II stile e sembra collocarsi attorno alla metà del I secolo avanti Cristo.
Oltre alle Nozze Aldobrandine, alle eroine di Tor Marancia e ai riquadri dell’Odissea, la Sala ospita ancora altri esempi di pittura romana, di provenienza prevalentemente ostiense, come le due scene di un calendario dipinto da un edificio privato nei dintorni di Porta Laurentina, messo in luce nel 1868, ancora di discussa interpretazione, ma simbolicamente caratterizzate da gruppi di fanciulli, che compiono cerimonie in luogo di celebranti adulti, o l’affresco raffigurante l’imbarcazione Isis Geminiana, da un sepolcro lungo la via Laurentina, che mostrale operazioni di carico di derrate a bordo di una navis caudicaria, imbarcazione di piccole dimensioni utilizzata per risalire il Tevere e trasportare le merci dalla foce del fiume fino a Roma.
[Claudia Lega]
Uscendo dalla Sala delle Nozze Aldobrandine e oltrepassando la Sala degli Indirizzi, si attraversa la piccola Sala dei Papiri, che ospita altri bozzetti in terracotta di Bernini, sempre dalla collezione Chigi: «Il profeta Abacuc e Daniele e il leone», per le sculture della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo. La denominazione della sala deriva dal complesso di papiri della chiesa di Ravenna (VI-IX secolo) esposti lungo le pareti (oggi in Biblioteca Vaticana e sostituiti da riproduzioni fotografiche) e difatti all’Egitto allude la fastosa decorazione in affresco, opera di Anton Raphael Mengs con Cristoforo Unterperger.
Sempre di provenienza Chigiana sono i globi terrestri e celesti che abbiamo nella collezione di strumenti scientifici, esposti nella Galleria di Urbano VIII e nella I Sala Paolina. Ma, prima di soffermarci su questi particolari oggetti è necessario, ancora una volta, fornire indicazioni sugli ambienti che li ospitano. Il progressivo addizionarsi di nuclei collezionistici, comportò il necessario reperimento di ulteriori spazi espositivi: problema che si risolse tamponando il Corridore di Ponente e aggiungendo a mano a mano le sale che, come le Paoline per Paolo V, presero il nome dai pontefici che in esse intervennero.
In questo susseguirsi di ambienti, troviamo i meravigliosi armadi ottocenteschi con le armi di Pio IX, decorati da pittoresche vedute sia del Vaticano che della città di Roma: ci sono scorci di giardini, cortili, ambienti dei palazzi e dei musei vaticani e, nell’Urbe, Fontane, piazze, la scalinata di Trinità dei Monti, il Pantheon, le catacombe.
Per quanto riguarda il Vaticano, queste immagini ci forniscono interessanti elementi sulla storia dei Musei in formazione (Gregoriano Egizio, Gregoriano Profano, Braccio Nuovo), offrono vedute del Cortile del Belvedere, del Cortile di San Damaso o di aree recondite dei Palazzi come la Sala della Bologna. Quest’ultima, che si trova nei Palazzi Apostolici, in Terza Loggia, è decorata da una veduta a volo d'uccello della città di Bologna, di cui era nativo il papa committente, Gregorio XIII Boncompagni, da una pianta del Contado e da una volta celeste realizzata da Giovanni Antonio da Varese detto il Vanosino. All’artista è ascritto anche lo splendido globo celeste cinquecentesco, a lungo attribuito a Giulio Romano, che si trova nella Galleria di Urbano VIII: si tratta di un manufatto straordinario che era stato realizzato per il cardinale Marco Sittico Altemps.
Dalla Galleria di Urbano VIII si attraversano poi le due piccole sale Sistine, nate sotto Sisto V per ospitare documenti e registri degli archivi papali, e si passa accanto al vestibolo del grandioso Salone Sistino, accessibile solo dagli ambienti di studio della Biblioteca Apostolica Vaticana.
Giungiamo infine alla I Sala Paolina, dove sono conservati gli strumenti scientifici e due planisferi di grandi dimensioni su pergamena: uno del 1529 firmato da Girolamo da Verrazzano, imbarcatosi con il fratello Giovanni, il grande navigatore fiorentino che, nel 1524, per primo ha esplorato la costa atlantica del Nord America, nel tratto di milleottocento chilometri compreso tra il luogo dello sbarco (Cape Fear, attuale North Carolina) e l’Acadia al nord; l’altro, anonimo, proveniente dalla collezione del cardinale Stefano Borgia. Su quest’ultimo vediamo tracciata la raya, la linea immaginaria con la quale, mediante il Trattato di Tordesillas del 1494, il papa Alessandro VI Borgia stabilisce che ciò che sta a occidente di essa appartiene agli Spagnoli (terre conosciute e terre ancora inesplorate) mentre ciò che è ad oriente della raya sarà invece di pertinenza dei Portoghesi.
Le scoperte geografiche che vediamo riportate in piano sui planisferi, le ritroviamo sui globi che, a partire dal Seicento, si iniziano a creare, solitamente eseguiti in coppia: oggetti di studio, divenuti poi pregevoli oggetti di arredo esposti nelle dimore dell’aristocrazia laica ed ecclesiastica. Gli otto globi esposti nella Sala Paolina I, montati su basi lignee in stile olandese, compongono quattro coppie formate ognuna da un globo terracqueo e uno celeste, come era consuetudine. Realizzati da Willem Janszoon Blaeu e figli e da Matthäus Greuter tra gli anni Venti e Quaranta del XVII secolo, essi ci raccontano tante storie.
I grandi globi terracquei, «teatro portatile della terra e del mare», come lo stesso Blaeu li definisce, ci parlano di esploratori e delle loro scoperte geografiche. Magellano, Hoorn, Tasman, solo per citarne alcuni, sono i nomi riportati con dovizia nelle inedite indicazioni geografiche presenti nei vari continenti, dall'America all’Oceania: lo Stretto di Magellano, Capo Horn, la Tasmania.
Mondi popolati da genti con usi e costumi diversi, da animali per l’epoca esotici: raffigurazioni di uomini Inuit, accampamenti mongoli, monumenti eletti a simbolo di importanti città, carovane di cammelli, e ancora struzzi, elefanti, rinoceronti popolano le superfici di questi globi variegandone le informazioni geografiche.
I globi celesti ci rimandano ai grandi maestri del passato del calibro di Tolomeo e di Tycho Brahe, amico e insegnante di Blaeu, che hanno tracciato la strada percorsa da generazioni di matematici e astronomi, veri e propri «cacciatori» di stelle a cui si deve una fantastica volta celeste popolata da animali, creature mitologiche, divinità. Ma aldilà di questi elementi comuni ogni globo ci racconta delle storie personali che lo rende unico.
I due globi terrestri, editati uno intorno al 1622 da Willem Janszoon Blaeu e l'altro intorno al 1645 dai figli, ci mostrano un mondo in continua evoluzione: dalla strana storia della «California», rappresentata come penisola nel globo degli anni Venti e invece come isola in quello più tardo degli anni Quaranta, alle nuove scoperte nella Terra Australis Ignota che, grazie anche alle esplorazioni finanziate dalla VOC, la grande Compagnia olandese delle Indie Orientali, nel corso di pochi decenni era sempre più svelata: Hollandia Nova, (Australia), la già nota Nuova Guinea, la Tasmania intitolata al grande esploratore olandese Abel Tasman, la Zeelandia Nova (Nuova Zelanda) e tante altre isole e arcipelaghi del grande continente Oceania compaiono sul globo stampato intorno al 1645.
L’Olanda mantiene per tutto il Seicento il primato nella produzione di questi pregevoli e costosi strumenti scientifici, che va di pari passo con una raggiunta posizione egemonica sui mari: i suoi intrepidi navigatori si spingono sempre più lontano, in particolare verso l’emisfero meridionale, incrementando a dismisura la conoscenza delle regioni della Terra e delle sovrastanti costellazioni del cielo.
[Maria Serlupi Crescenzi]
IL MUSEO INFINITO
Un viaggio dentro i Musei Vaticani accompagnati da guide d’eccezione: i curatori responsabili delle sue collezioni
A cura di Arianna Antoniutti