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Tempio dorico di piazza Castello a Taranto (VI secolo a.C.)

Immagine tratta da Wikipedia, © Livioandronico2013 CC BY-SA 3.0

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Tempio dorico di piazza Castello a Taranto (VI secolo a.C.)

Immagine tratta da Wikipedia, © Livioandronico2013 CC BY-SA 3.0

ITINERARI ESTIVI • In Magna Grecia con Massimo Osanna. Seconda puntata

Parte seconda • I primi a giungere nel Mezzogiorno furono gli Achei, i Greci del Peloponneso che, dalla fine dell’VIII secolo a.C., si spostano in diverse ondate, come nelle migrazioni attuali. Oggi siti archeologici e musei ci raccontano di colonizzazione, osmosi culturale e «globalizzazione»

Massimo Osanna

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Massimo Osanna ha da poco pubblicato il suo nuovo libro Mondo Nuovo. Viaggio alle origini della Magna Grecia (368 pp., Rizzoli, Milano 2024, € 25), un racconto archeologico alla scoperta di alcuni centri del golfo ionico, ma soprattutto dei popoli che li hanno abitati. In queste pagine ci guida in una passeggiata per quei territori, accompagnati dal suo nuovo testo. 

È un immaginario viandante antico quello che, in un giorno della bella stagione verso la fine dell’VIII secolo a.C., guida il lettore alla scoperta del Mondo Nuovo, la terra promessa dei Greci che in quel periodo approdano sulle coste dell’Italia meridionale e della Sicilia, alla ricerca di nuovi territori, stabilendo forme di convivenza sempre diverse con i popoli che abitano quei luoghi. E sarà proprio lo stesso viandante ad accompagnarci nel nostro itinerario attraverso paesaggi bellissimi e incontaminati, dalle alture appenniniche all’entroterra fino alla costa ionica, in un mondo in fermento dove nuove e vecchie comunità nascono, spariscono e si modificano.

Policoro: Corredi da incinerazione

Da qui, il nostro infaticabile viaggiatore ci conduce a Policoro (Mt), sulle tracce di una comunità emigrata in massa da Colofone, una città greca nella lontana Asia Minore (l’odierna Turchia). Nel Museo Archeologico Nazionale di Policoro sono le tombe con i loro corredi, che lasciano sempre tracce più visibili degli abitati, a restituirci la memoria degli antichi abitanti. Nella necropoli arcaica, il rito funerario più diffuso è quello della cremazione (in linguaggio archeologico detta «incinerazione»), secondo un costume attestato in Grecia più che in Italia meridionale. Qui i corredi tombali comprendono vasi importati dalla Grecia o prodotti in loco da artigiani greci. Nello stesso tempo, i Greci appena arrivati costruiscono le prime abitazioni con tecnica locale, forse perfino aiutati dalle genti del luogo. Quella che sorge a Policoro è dunque una comunità «aperta», che attira le genti enotrie dall’interno, avviando nuove forme di contatto culturale. Da qui il doppio nome con cui la città è tramandata nelle fonti: Siris, che niente ha di greco, e Polieion, invece tipicamente ellenico.

Il viandante ci suggerisce di soffermarci su due fibule (spille) in argento provenienti dalla Frigia, nell’attuale Turchia, e conservate al Museo di Policoro. Una è stata rinvenuta nella colonia di Policoro, l’altra nell’insediamento enotrio di Santa Maria d’Anglona, nell’immediato entroterra. Il fatto che due manufatti della stessa tipologia (entrambi di importazione e, quindi, preziosi) compaiano contemporaneamente in due ambienti di diversa «etnia» ci tramanda il ricordo di un legame fra persone, in un mondo in cui lo scambio di doni diviene un mezzo di «comunicazione» politica e culturale.

Taranto: Convivialità del banchetto

Ragionando durante il tragitto su come la discussione scientifica moderna si sia concentrata sul tentativo di riconoscere la natura greca o locale dei vari insediamenti, legandosi a un approccio connesso al fenomeno di «etnicità», forse talvolta sopravvalutando l’apporto dell’elemento greco, giungiamo a Taranto. Ormai edotti sulla complessità dei rapporti fra nuovi arrivati e genti locali, facciamo la conoscenza degli Japigi, gli «indigeni» presenti in terra apula al momento dell’arrivo dei Greci di Sparta, diretti a fondare quella che diverrà l’unica colonia di Puglia, appunto Taranto.

La vicenda comincia in due siti dell’area tarantina, Scoglio del Tonno, un approdo costiero posto di fronte alla punta estrema della penisola, e Saturo, un sito costiero posto più a sud lungo la costa. Gli Japigi qui insediati sono i veri protagonisti della vicenda coloniale tarantina, presenti fin dal responso oracolare che aveva predetto al capo della spedizione di essere «rovina per gli Japigi». La fondazione di Taranto è un processo di sviluppo verso la città più che un momento puntuale, che ha condotto, lentamente, a occupare la penisola, in origine quasi un promontorio sul mare. Il nostro viandante ci mostra le tracce della città arcaica: le due colonne superstiti del monumentale tempio dorico in piazza Castello e l’odierna via Duomo, esistente già nella città greca. Per entrare in contatto davvero con la classe aristocratica che abita Taranto fra VII e VI secolo a.C., ci rechiamo al Museo Archeologico Nazionale di Taranto, per soffermarci sulle tante vetrine dedicate alla necropoli antica, dove più di 500 corredi tombali, colmi di ceramiche provenienti dalla Grecia, tratteggiano il ricordo di persone con una ricca vita sociale, legata alla convivialità del banchetto e alla pratica atletica.

Per spiegarci la varietà delle forme di contatto messe in atto dalle genti locali e dai nuovi arrivati per mantenere in vita le comunità, il nostro accompagnatore racconta di quanto avvenuto al sito dell’Amastuola, dove un insediamento probabilmente gestito da Greci e sorto in concomitanza con l’arrivo dei primi coloni restituisce i tratti di una comunità in cui gli Japigi, in particolare le élite locali, sono stati perfettamente inglobati nella società.

Museo Archeologico Nazionale di Taranto

Potenza: Un mondo radicalmente nuovo

Il nostro viaggio alla scoperta del mosaico di popoli che abitavano la costa ionica al momento dell’arrivo dei primi Greci si conclude con una incursione nell’entroterra appenninico della Basilicata. Qui, dall’avanzato VIII secolo a.C., vivono genti italiche di cui non conosciamo il nome, ma distinte dagli Enotri e dagli Japigi. I nostri italici, insediati intorno alla città odierna di Potenza, sono molto fieri della loro diversità ed esibiscono con orgoglio i loro tratti culturali. Insieme al nostro viandante incontriamo un mondo radicalmente nuovo, un altro modo di vivere e di organizzare il tempo e lo spazio. Stupiti, facciamo il nostro ingresso nella «non città italica», nel sito di Torre di Satriano, dove oltre agli spazi per abitare e a quelli per i morti, sussistono quelli per gli animali, le aree destinate alle attività artigianali e alle manifestazioni festive, senza alcuna evidente cesura. Non ci sono gli elementi costitutivi della città greca, né maestosi santuari e templi per gli dei, perché il culto qui non ha uno spazio dedicato, ma si celebra nelle dimore dei capi, in una società organizzata su base tribale e retta da quello che gli antropologi chiamano il «big man». A un primo sguardo ci sembra che, ancora più che negli insediamenti enotri, manchino le tracce del vivere in maniera civilizzata, cioè «alla greca». Così perplessi, arriviamo al Museo Archeologico Nazionale di Potenza e ci troviamo ad ammirare le sfingi e le lastre del fregio in terracotta che decoravano la sommità del Palazzo di Torre di Satriano e il nostro accompagnatore ci racconta che le iscrizioni incise e dipinte su queste terrecotte compongono un sistema di segni funzionale al montaggio dei pezzi sull’edificio e sono scritti nel greco di Taranto, qualificando così la provenienza degli artigiani. Entrando in contatto con le élite, la nostra impressione di estraneità si attenua: alla fine il modo di comportarsi dei «capi» non è poi così dissimile dai signori delle città greche. La fastosa dimora è il frutto degli stretti contatti intrapresi dal capo satrianese con le aristocrazie di Taranto nel corso della prima metà del VI secolo a.C. e si sovrappone, significativamente, alle tracce emerse di un edificio ad abside appartenuto ai «vecchi» capi della generazione precedente, di cui al Museo di Potenza si possono ammirare i corredi tombali.

Il nostro viaggio termina qui e ci resta negli occhi la vivida immagine di un nuovo mondo, quello della Magna Grecia, che si definisce grazie all’interazione comunicativa fra popoli, in questo caso fra nuovi arrivati e genti già radicate nei territori, dando luogo a forme di identità sempre nuove e spesso ricostruibili proprio grazie all’archeologia.

Alcuni reperti esposti al Museo Archeologico di Potenza

Massimo Osanna, 05 agosto 2024 | © Riproduzione riservata

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