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Un particolare di «Atlantic» (2016) di Arjan Martins, esposto durante l’ultima edizione della Biennale di San Paolo (2021). Foto Pepe Schettino. Courtesy Arjan Martins

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Un particolare di «Atlantic» (2016) di Arjan Martins, esposto durante l’ultima edizione della Biennale di San Paolo (2021). Foto Pepe Schettino. Courtesy Arjan Martins

Il Modernismo brasiliano è stato definito da (e talvolta contro) l’identità nazionale

Mentre il Brasile celebra il bicentenario dell’indipendenza, esaminiamo i movimenti che hanno definito la scena artistica del Paese negli ultimi 200 anni

Ela Bittencourt

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Il Brasile celebra quest’anno il bicentenario della sua indipendenza, proclamata il 7 settembre 1822, e il centenario del festival artistico modernista Semana de Arte Moderna (Settimana dell’Arte Moderna), svoltosi per la prima volta nel febbraio 1922. La doppia commemorazione sottolinea quanto l'identità nazionale del Paese e i movimenti artistici moderni fossero profondamente intrecciati.

Nonostante i modernisti brasiliani seguissero le tendenze occidentali e in molti si fossero recati a Parigi per entrare in contatto con le avanguardie europee, studiare il Cubismo e frequentare gli studi di Fernand Léger, Constantin Brâncusi e altri, i principali teorici del movimento, lo scrittore e imprenditore Oswald de Andrade e il poeta e critico d’arte Mario de Andrade (nessuna parentela), misero in rilievo il carattere specifico dell’arte brasiliana.

Il Manifesto Antropofágo (1928) di Oswald de Andrade mirava a superare l’eurocentrismo dell’arte del tempo definendo il Modernismo brasiliano come cannibale, in quanto esso aveva digerito ma allo stesso tempo si era ribellato ai modelli europei. La fascinazione di De Andrade per le tradizioni Tupi e Afro-brasiliane esemplifica il carattere intrinsecamente ibrido, ma anche la contraddizione, del Modernismo brasiliano, che per il pubblico europeo rappresentava  l’«alterità», escludendo tuttavia gli artisti indigeni e neri.

Questa tensione pone al centro l’antropofagia nelle rivisitazioni contemporanee del Modernismo, ad esempio nel lavoro di Tarsila do Amaral. Le recenti retrospettive internazionali del suo lavoro, che comprendevano il celebre dipinto «Abaporu» (1928) [in lingua Tupi «L’uomo che mangia persone», Ndr], hanno stimolato dibattiti su quanto la rappresentazione della negritudine e dell’indigenità nell’arte moderna rispecchi nelle scienze sociali moderne la storia brasiliana di genocidi, schiavitù e ideologie razziste.

Se l’arte moderna brasiliana si è concentrata sulla nozione di «brasilianità», i movimenti successivi hanno superato questo essenzialismo. Negli anni Cinquanta, Oswald de Andrade ha sostenuto l’astrazione per rompere con le tendenze nazionaliste e accademiche. Il Grupo Ruptura di San Paolo, di cui facevano parte gli artisti Waldemar Cordeiro, Geraldo de Barros e Judith Lauand, prediligeva geometrie rigorose. Il Grupo Frente di Rio de Janeiro, che riuniva artisti come Abraham Palatnik, Ivan Serpa, Amilcar de Castro, Lygia Clark, Lygia Pape e Hélio Oiticica, utilizzò la fenomenologia di Maurice Merleau-Ponty come base per il Manifesto Neo-Concreto (1959) che, scritto dal poeta Ferreira Gullar, sostiene un approccio fluido e organico all’astrazione.

Gli anni ’60 e ’70 videro la proliferazione di stili e approcci sperimentali nell’arte brasiliana, dalla Nuova Figurazione, alla Pop art, all’Op art, all’arte concettuale, fino alla performance, al rapporto con il paesaggio e al cinema, con la maggior parte degli artisti che combinavano una vasta gamma di mezzi. La serie di sculture di Lygia Clark, note come «Bichos», e le «Bólides» di Oiticica spostano la pittura nello spazio tridimensionale.

Reagendo ai mass media e al consumismo, ma anche alla censura e alla violenza politica, in particolare dopo il colpo di Stato militare del 1964, e traducendo un atteggiamento conflittuale nei confronti dell’egemonia culturale e dell’imperialismo degli Stati Uniti, l’arte pop e concettuale brasiliana assunse anche una posizione sovversiva, come dimostrano le opere di Antonio Dias, Carmela Gross, Ana Maria Maiolino, Cildo Meireles e altri. Nel frattempo, l’esame critico del razzismo e la svolta verso la spiritualità panafricana hanno segnato la pratica dell’artista nero Abdias Nascimento. Formando vaste ma fluide reti internazionali e latinoamericane, gli artisti brasiliani in viaggio o esiliati all’estero contribuirono a far emergere l’arte concettuale a livello globale.

Gli anni Ottanta rivelarono quanto la pittura brasiliana avesse assimilato le lezioni del Pop e del concettualismo. Un gran numero di influenti pittori, tra cui Leda Catunda, Beatriz Milhazes, Daniel Senise, Luiz Zerbini e José Leonilson, uscirono dalla Parque Lage Visual Art School di Rio de Janeiro fondata dall’artista concettuale Rubens Gerchman, e parteciparono alla storica mostra del 1984 «Como vai você Geração 80?» (Come va la generazione degli anni ’80?, Ndr). Nuove tecniche come la Xerox e la videoarte emersero ad esempio nelle pratiche di Hudinilson Jr. e Rafael França del collettivo 3Nós3. Dopo il ritorno della democrazia in Brasile nel 1985, gli artisti del Parque Lage come Fernanda Gomes, Brigida Baltar e Ricardo Basbaum, poco connessi dalle gallerie cittadine, sperimentarono diversi media.

Dai primi anni ’80 a oggi, invece, l’arte brasiliana riflette la globalizzazione dei circuiti e delle pratiche collettive, ma anche le eredità durature dell’arte astratta e concettuale. Artisti come Paulo Nazareth e Graziela Kunsch dimostrano la risonanza sociopolitica di quest’ultima; altri, come Marepe e Yuli Yamagata, evocano la materialità dei readymade duchampiani; altri ancora, come Renata Lucas, si confrontano con l’urbanistica, l’architettura e la critica istituzionale. Da pittori affermati come Arjan Martins a nuovi arrivati come Dalton Paula e Maxwell Alexandre, gli artisti neri brasiliani combinano storie transatlantiche con le complesse culture urbane contemporanee del Paese.

Anche gli artisti indigeni contemporanei, come Jaider Esbell e Denilson Baniwa, hanno recentemente riformulato l’antropofagia per mettere al centro le narrazioni indigene non come alternative, ma piuttosto come aspetti trascurati della modernità. Come dimostra il numero di artisti indigeni presenti all’ultima Biennale di San Paolo, e le mostre rivelatrici «Histórias Afro-Atlânticas» e «Histórias Indígenas» del ciclo «Histórias Brasileiras» in corso al Museu de arte de São Paulo Assis Chateaubriand, al di là di una maggiore rappresentazione la proposta della Biennale Foundation di un team curatoriale collettivo per la prossima edizione riflette le sfide che i Bipoc (Black, Indigeni e persone di colore), studiosi e curatori hanno posto alla scena artistica brasiliana, storicamente escludente e gerarchica.
 

«Natureza morta 1» (2016) di Denilson Baniwa, esposto nelle mostre «Histórias da Dança» e «Histórias Brasilerias» al Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand. Foto Denilson Baniwa. Courtesy Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand

«Bicho linear» (1960) di Lygia Clark. Courtesy Associação Cultural «O Mundo de Lygia Clark»

La copertina del catalogo illustrata da Emiliano di Cavalcanti per la «Semana de Arte Moderna», tenutasi al Teatro Municipal di San Paolo nel 1922

Ela Bittencourt, 07 settembre 2022 | © Riproduzione riservata

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