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Silvia Mazza
Leggi i suoi articoliTra le prime opere moderniste italiane, fu integralmente progettato da Basile
Padiglione di delizia capace di ordinare in una nuova sintassi curve barocche, capriate nordiche, colonnine romaniche e bugnati rinascimentali, il Villino Florio all’Olivuzza era una straordinaria macchina eclettica che doveva dare agli illustri ospiti dell’alta borghesia la magnificenza di una delle più potenti famiglie italiane dell’epoca, i Florio.
Fra le prime realizzazioni moderniste in Italia, fu integralmente progettato tra il 1900 e il 1901 da Ernesto Basile che ne curò ogni dettaglio anche degli arredi interni, col coinvolgimento dei migliori artisti e ditte specializzate dell’epoca: Giuseppe Enea ed Ettore De Maria Bergler per le pitture decorative, Salvatore Gregorietti per le vetrate policrome piombate e dipinte a fuoco, le ditte Mucoli e Golia per le parti lignee, Ducrot per i mobili, Ceramica Florio e Caraffa per gli apparecchi illuminanti e la Società Trinacria per gli impianti elettrici.
Terminata l’età d’oro della famiglia, il villino cadde in disuso fino all’incendio doloso, a scopo speculativo, che nella notte tra il 23 e il 24 novembre 1962 distrusse quasi del tutto gli interni e annerì alcune parti del paramento murario esterno causandone la decoesione. In quello stesso anno si costituiva il Comitato Salviamo Villa Florio; nel 1975 l’edificio venne acquistato dall’Ente per i Palazzi e le Ville di Sicilia, per entrare in possesso della Regione quasi dieci anni dopo a seguito della soppressione dell’ente. Preceduto da due interventi di restituzione, nel 2006 la Soprintendenza di Palermo avvia, con fondi comunitari, il ripristino filologico limitato alle stoffe per i rivestimenti parietali interni (tessute appositamente presso le storiche seterie di San Leucio a Caserta) e ad alcuni rivestimenti, arredi e decorazioni lignee, oltre alla vetrata policroma del salone, per la quale sono stati utilizzati i vetri Lambert che presentano le stesse caratteristiche di quelli d’epoca Liberty.
Conclusi nel 2009, i lavori (per 250mila euro del Po Fesr Sicilia 2007-2013) vengono ripresi nel novembre 2013 dal Centro Regionale Progettazione e Restauro di Palermo, per ultimarsi nel dicembre scorso, con la riapertura al pubblico il 9 gennaio. Il Villino è attualmente sede della Fondazione Unesco Sicilia. L’ultima tranche comprendeva, precisa la progettista Marilù Miranda, «il restauro conservativo dei tegumenti in ardesia e degli elementi metallici della copertura, preceduti da indagini propedeutiche condotte dai laboratori di Chimica e Biologia del Crpr, e, a completamento della riconfigurazione dell’apparato decorativo ligneo e in linea con la scelta del ripristino filologico, la realizzazione del ramage ligneo del soffitto dello scalone principale».
Ma è sul ripristino filologico del giardino storico teso a recuperare l’impianto primitivo che si sono appuntate le critiche delle associazioni culturali in difesa del patrimonio, con in testa Giovanni Purpura per il quale l’approccio doveva essere conservativo, e di Giuseppe Barbera, ex assessore all’Ambiente del Comune e professore di colture arboree all’Università di Palermo, che rinvia alla Carta del restauro dei giardini storici del 1981 secondo la quale l’intervento deve «rispettare il complessivo processo storico del giardino (…). Ogni operazione che tendesse a privilegiare una singola fase assunta in un certo periodo storico e a ricrearla ex novo, a spese delle fasi successive, comporterebbe una sottrazione di risorse e risulterebbe riduttiva e decisamente antistorica». Allo stesso documento si appella anche la Miranda laddove consente di eccepire al principio generale qualora «il degrado o il deperimento di alcune parti possano eccezionalmente essere l’occasione per un ripristino fondato su vestigia o su documenti irrecusabili. Potranno essere più in particolare oggetto di un eventuale ripristino le parti del giardino più vicine a un edificio, al fine di farne risaltare la coerenza».
Ma il punto è proprio questo. Il risultato ottenuto, una distesa di tufina delimitata da un prato ordinato all’inglese, invece che esaltare la coerenza del giardino con il villino, crea un effetto di contrappunto tra il minimalismo del primo e il caleidoscopico divertissement architettonico del secondo, il che non corrisponde però alle intenzioni di Basile, che aveva pensato a un giardino ben più vivace, con serraglio, laghetto, serra per le orchidee, chioschetto siculo-normanno e tempietto neoclassico. Mentre all’interno, i rifacimenti ad identicum sono a un passo dal falso storico in mancanza di una chiara distinzione tra nuovo e originale, non certo favorita dall’assenza di pannelli didattici.
Vi è dunque chi si chiede se le «nuove metodologie di intervento per la riconfigurazione filologica», che hanno fatto del Villino Florio un progetto sperimentale, non siano state piegate al servizio di uno sterile esercizio di ripristino, per aver disatteso il tratto saliente di un organismo in cui, secondo Basile, ogni elemento (dipinti, mobili, tappeti, stoffe parietali, rivestimenti lignei) trovava la propria compiutezza nell’integrazione agli altri.
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