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Antonio Saliola «Il sogno della Sirena», 2017, 150 x 200 cm

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Antonio Saliola «Il sogno della Sirena», 2017, 150 x 200 cm

Il cielo nel «Quasi orto» di Antonio Saliola

Al Palazzo Mediceo di San Leo la produzione recente del pittore bolognese

Luca Cesari

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San Leo (Rimini). Una trentina di quadri di grande formato, dipinti da Antonio Saliola dal 2013 al 2018, sono esposti nella mostra «Un’occhiata al cielo» dal 21 luglio al 14 ottobre al Palazzo Mediceo di San Leo.
Il testo del professor Luca Cesari per il catalogo della mostra:

Quel paese che si schiude davanti a noi lentamente

Ai visitatori della mostra di Antonio Saliola perché non abbiano fretta 

La cultura figurativa di un pittore è sempre un’immensa, amata, letteratura sulla quale non mette conto parlare, se non quando è indagata nella sua sede, essendo ogni pittore, a torto o a ragione, un oscuro dizionario figurativo, un vagabondo dell’esperienza, uno stracciaiolo della fantasia o degli ideali come qualcuno ha detto dopo Baudelaire, e Baudelaire pure se ne intendeva di pittori e di quadri; mentre è sempre interessante badare verso dove questa indipendenza mentale, cui quella cultura figurativa lo ha tratto, adesso lo porti. E in particolare verso dove porti noi con la sua autoctona semplice inquietante disposizione di spirito.

Mi domando dunque, dove Saliola oggi ci accompagni con le scelte dei suoi nuovi dipinti, avendo noi di quelli passati, di ieri, una cognizione abbastanza precisa: in quale tempo e nel richiamo di quale dimensione, dopo il passaggio lento attraverso le sue tele dell’“incanto del quasi” su cui abbiamo già riflettuto. Più facile comprenderlo rifacendosi a quel varco che questo pittore di stupori perduti orientava a spicco sul cielo, sul margine più alto della rappresentazione, pressoché sui grappoli delle nuvole, in Un orto in paradiso: il quadro che racchiudeva per intero la mostra degli anni più recenti (L’incanto del quasi, appunto, nel 2015). In quel camminamento che pare intravedersi sulle nuvole, il terreno dell’orto scivola nel prosieguo; e per aloni ocracei lenti e propaganti respiri di verde, si scorge, io credo, l’impulso nascente che non dà nel metafisico ma pur sempre nel mistero, ossia nella nostalgia di un luogo perduto uguale a quello cui allude il titolo della mostra di oggi, riallacciandosi pressoché al medesimo nucleo.

Anche nei nuovi orti troviamo repliche dello stesso discorso per angoli visuali, ci rituffiamo nei cancelli e per l’appunto, nei Cancelli del cielo. Qui il pittore addirittura seleziona il topos;ma nell’altro quadro, cui piace pensare come al prodromo o al capofila anteriore in cui si compie già la virata per viste a distesa, una scaletta ancora, garantiva l’accesso per l’oltre, facendo pensare al cielo come a un ‘territorio’ annesso al confine attraverso cui gli ortolani passano con le carriole sospinte, a significare che più oltre è impossibile guardare.

Nel frattempo, la nuova tacita vista che replica nella singolarità talune costanti, non è suffragata da vedute a distesa come nel precedente. Qui il discorso cambia. Ma nell’Orto in Paradiso costituiva il mirabile espediente anti-prospettico per arpionare il confine celeste, impalpabile, invitando a pensare o suggerendo la stessa gradualità illustrata nella visione dantesca del Paradiso terrestre. La quale fa da transito verso il vero e proprio Luogo della beatitudine

Certo la strada per il cielo non si può tracciare come un cardo romano. Semmai come un sentiero che serpeggia nell’ombra reale del verde; e questo è anche il tema delle due dimensioni di Dante, reale e invisibile di una divina foresta spessa e viva prendendo la campagna lento lento / su per lo suol che d’ogni parte auliva circa la quale il quadro di Saliola realizza una indiretta parafrasi. Specie per quanto concerne il realismo dell’atmosfera iconica e ideale dell’eccelso orto.

Eccelso, perché collocato, come il luogo di Dante, in cima al Monte Purgatorio. Però, se attraversiamo adesso quel cancello, nell’aria assorta, ci si trova a confronto, a distanza di tre anni, con un più ragionevole arretramento dalla grande (e grandangolare) tela allora dipinta. Ci troviamo a camminare nel corridoio dei passi perduti della memoria, cioè nel fiume della vita stessa che non vuol significare una dimissione, una riduzione della grande avventura simbolica, ma solo un gesto correttivo, un atto di pudore intorno a questo mare di mistero.

Un’occhiata al cielo. Che cosa è successo? Intanto l’orto in paradiso oggi lo vediamo per squarci, per tagli; e nel paesaggio animato e amato, che è quello di sempre, si nasconde qualche insidia prima di arrivare alla vista agognata; tant’è che il pittore non s’imbatte nell’aria trasparente ma, al contrario, in acque nascoste, in un fiume che gli sbarra il cammino. Mentre, sull’altra sponda di quel vestibolo, si fa dinnanzi una Matelda contraria, un po’ sinistra. Ed è quella che riconosciamo nell’apparizione stregata occupante la visione della grande tela fosca, Il sogno della Sirena che il visitatore affronta come pendant a contrasto dell’immagine più solita e retrospettiva della natura di Saliola, recando un tono diverso che genera incertezza e rade di freddo chi passa, tanto quanto i colori in paradiso si armonizzano con il calore e con l’innocenza delle impressioni naturali.

Ma essa non lì per ambagi e non senza ragione (restando almeno nell’ottica del cammino salvifico), per catturare, per purgare e per riformare. Interpreta il canto delle Sirene. È un quadro, come ho detto inquietante e magato che apre a tante considerazioni. Il giardino è sempre quello dell’orto, delle aiuole e delle statue di bambine, ma come stregato da un sortilegio, da un nembo che oscura gli armonizzanti elementi del luogo, rannuvola il sogno per l’ira improvvisa di uno Zeus che punta su quell’Eden, come in un passaggio di Fantasia di Disney.

Questo quadro della tenebra è l’esperienza che il pittore doveva superare; occorreva forse ancora uno snodo, reso quanto mai chiaro nel più interno segreto, una crisi chiusa, nascosta, per giungere al diapason che acuiscono le opere nuove al di là del “meraviglioso sistema di magie e di trucchi” (come uno scrittore ha detto) della natura che incanta. Questo ha insegnato l’esperienza del grande quadro obliquo e fatato. L’ultimo cancello forse. E in effetti non si può dare più che un’occhiata al cielo uno sguardo di fuggita, perché il cielo è una verità di primo rango, cui è dato accostarsi per allusioni al segreto punto di fuga della memoria verso una parte del nostro mondo inafferrabile, o afferrabile con poche sbirciate perfette e centranti. Poche ore, pochi attimi posseduti in pieno. Ma sono tutto. E come Proust pensava, costituiscono la nostra vera vita, il bagno della mente del pittore nei brevi barlumi d’oro fuori dalla superficie. “E' proprio perché quel paese misterioso che si schiude in quei momenti davanti a noi esiste realmente, quando lo percorriamo con tanta ebbrezza, di galoppo, i quadri che da esso riportiamo, se li abbiamo cercati veramente in quel paese, ossia se eravamo realmente ispirati, si somiglian tutti”.

Sono proprio essi a innestare il divario tra una realtà di primo livello e un rango inferiore, a fermare la carovana di ogni giorno.Sono sorprese isolate, luci che riescono a distrarci dai lavori forzati, momenti in cui il tempo vero prende il posto di quello canonico, mentre ricompone l’aria di quel paese interiore da cui siamo divisi, dall’asteroide lontano da cui siamo forse caduti e al quale desideriamo fare ritorno come il piccolo principe. Quegli indimenticabili orli del tempo che occupano tutta la scena del nostro pittore, dalle logge dei giardini, dalle grandi campagne, o da qualche finestra che apre i suoi termini in qualsiasi angolo remoto di luogo reale dove di reale ci sia soltanto la memoria di un tempo più vero. Un battito di ciglia, un rapido sguardo, una sbirciata nell’oltre. Che si tratti di un alto, o di un fondo, nelle sue possibilità d’essere astronomiche, Saliola vede squarci nella cella, apre fessure al proprio desiderio di cielo. Una piccola tenda di celeste, per l’appunto, come nella bellissima Ballata del carcere Reading di Wilde: “Mai vidi uomo guardare così / con occhio di tanto languore / quella piccola tenda celeste / che i prigionieri chiamano cielo”. Un orlo, un ciglio appena.

Saliola è un selettore severo di tali momenti preziosi, di siffatte ore d’oro che incorniciano in modo saliente la sua pittura. Nient’altro vuol dire il titolo della mostra attuale se non questa preferenza accordata al frisson de la durée che tutto colma e sigilla negli anditi magici di un bosco sino ai margini estremi della tela, quasi niente vi fosse di superiore a tali misteri.

Che cosa vuol dire? Che il cielo è tutto nella finestra, che è tutto nella foresta, nelle idee di un bambino disteso sull’erba? Già lo ha affermato Proust, e non si può fare a meno di riferire anche al nostro caso. Al caso di un autentico pittore di recherche, di immagini ritrovate,come pochi altri figurativi ne sono. “I musei sono case che ospitano soltanto pensieri”; o anche: l’essenza della pittura consiste come in Rembrandt non tanto nel dipingere la luce cangiante e radiosa della natura, quanto nel colorire “in certo modo, la luce stessa del suo pensiero”; o consiste come in Moreau nel rendere sempre più frequenti i momenti “nei quali poteva penetrare la sua anima interiore […] i soli momenti veri sono quelli […] il resto della vita è una specie di esilio”.

Ma l’affermazione sarebbe contraddittoria con sé stessa e con il titolo della mostra se distruggesse gli obiettivi della figura rivelata, quel luogo, quel paese dimenticato dove abbiamo radici. Si è parlato non per nulla di pudore. Ai greci il rapporto con il Bello naturale suscitava un misto tra il silenzio e il desiderio di tacere. Il tacere era il segno che la natura aveva impresso nell’animo in chi aveva esperito la bellezza. E per designare tale esperienza essi usavano il termine aidos che noi traduciamo con un vocabolo meno vasto – come ha osservato Walter F. Otto. Ma la pudicizia è la riservatezza davanti all’intangibile; il timore, l’esser stupiti, il rimanere ammutoliti di fronte alla taciturnità del segreto inesplicabile. Persino Socrate, il loquace per eccellenza, il ragionatore continuo, colui la cui voce dissimula il pozzo del sapere professando l’arte di fare sempre domande, anche lui si è ammutolito sotto l’ombra di un platano immenso, più o meno nei paraggi del paradiso, come narrato all’inizio del Fedro platonico. Socrate azzittisce, il più grande genio dell’Attica prova pudore, sente rispetto per le cose sacre: “ L'aria è densa dei pollini dei fiori e del canto delle cicale. Il luogo appare esser veramente divino, perciò non stupirti se nel corso del mio parlare sarò più volte afferrato dalle Ninfe […] O caro Pan e tutte voi altre divinità di qui, fate sì che io divenga bello interiormente”.

Dove è rispettato il silenzio è rispettato il silenzio del mondo. In tal senso l’iniziazione o la continuazione di tali dipinti apre ancora a selve, giardini, orti, fate, geni femminili della natura che ci paiono non diversi da quelli che il pittore ha sempre dipinto; ma è accaduto qualche cosa che ha mutato i termini dell’approdo e su ciò occorre riflettere. Il pudore. Dipingere il pudore. La strada indicata è allora quella di una nostalgia che non deve deflettere dall'intento e dall'animo, ma, soprattutto, riportarsi a un passo più chiaramente terra a terra, come quello cui allude l’opera messaggera della nuova mostra, cioè il quadro più poetico che Saliola abbia dipinto da molto tempo: Ti porterò alle montagne; ma anche il quadro più consentaneo alla inquietudine del nuovo cammino da fare qui, sulla terra. Non si tratta più di un sistema di scale per intrappolare l’altrove dall’arcipelago orto, inseguendo astronavi o mongolfiere che fanno di noi solamente inquilini (e forse pretenziosi) del cielo. Ma di un cammino mirabile e terraneo, faticoso ma incantante, come quello che nelle fiabe e nella nostra esistenza richiede cancelli, vialetti, camminamenti verso il paese che noi siamo, e siamo incapaci di afferrare, superando altresì il problema della destinazione e dei cancelli aperti verso chissà dove.

Dovremmo anche lasciar perdere la questione ultima del dove, dovremmo cessare anche ogni boria verso questo problema. Cessare la boria dello Zarathustra nicciano che scende dalle montagne per insegnare una nuova religione agli uomini e forse attenerci all’umile indicazione del pittore: ricompiere i passi perduti, riordinare i nostri valori e meditare sopra l’immagine di una bambina, un genio femminile dell’umanità che riaccompagna l’orso alle montagne da cui si è allontanato. Chi si è smarrito? Noi o l’orso? Rifare a ritroso la scala all’inverso della boria nicciana, sentire in altro modo la nostalgia di luoghi che siano soltanto sé stessi, come Proust dice. “Abbiamo sete di luoghi che siano soltanto sé stessi, e non altri”. Solo una bambina immemorabile in cammino con un’orsa per una vallea immensa, può aiutarci a risalire il cielo. A dare un’occhiata appunto, al cielo. Di più non riusciremo a fare, perché non tutti saremo in grado d’essere accompagnati già in questa vita attraverso “le porte regali”. Accontentiamoci pertanto delle ore riuscite, delle ore di favore, buone e segrete, in grazia delle quali presagiamo la grandezza del nostro mondo solo se riusciamo a stare zitti.
 

Antonio Saliola «Il sogno della Sirena», 2017, 150 x 200 cm

Luca Cesari, 22 luglio 2018 | © Riproduzione riservata

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