Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Un dettaglio della copertina di «Corteo» di Rachel Cusk

Image

Un dettaglio della copertina di «Corteo» di Rachel Cusk

Il corteo di Rachel Cusk

Identità capovolte e arte come specchio: il contemporaneo nell’ultimo libro della scrittrice canadese

Marta Cereda

Leggi i suoi articoli

«I discorsi sull’arte che dominano il romanzo sono pesanti. È come se uno avesse imparato a parlare solo dentro la Tate o il Whitney, senza aver mai mangiato un hot dog. Un artista, vedendo cadere gli alberi, riconsidera la question of verticality. Alcuni dipinti scioccano perché non si impegnano nel moral barter of representation. I senzatetto sono reproaches to subjectivityCosì Dwight Garner critica il nuovo libro di Rachel Cusk (1967) sulle pagine del «New York Times». E credo, in realtà, siano stati proprio la «questione della verticalità» o il «baratto morale della rappresentazione» a farmi sentire la parata di personaggi rappresentata così vicina. 

Ho acquistato «Corteo» di Rachel Cusk nel bookshop di un museo, il MAXXI di Roma, quindi avevo intuito che, in qualche modo, le arti visive sarebbero state protagoniste. Lo sapevo anche perché, oltre alla sua celebre «Trilogia dell’ascolto», avevo già letto «La seconda casa» (Einaudi, 2023), in cui l’autrice indaga il rapporto tra scrittura e pittura e quello tra femminile e maschile, esplorando il cliché della libertà nella vita di un artista. Un romanzo – considerando le caratteristiche della prosa di Cusk – lineare, impostato, come dichiarato da lei stessa in una nota, su modello di un memoir del 1932 in cui Mabel Dodge Luhan ripercorre il periodo che D. H. Lawrence trascorse con lei in New Mexico. 

In «Corteo», la forma è decisamente più confusa. Un unico titolo, quattro capitoli o quattro racconti? Il tutto viene complicato dal fatto che uno di questi fosse già stato proposto (e pubblicato da Marsilio) in occasione di un appuntamento organizzato da Palazzo Grassi, a Venezia, nel 2022, e anche altri frammenti del testo avessero già avuto spazio in riviste. La forma è confusa non solo per la presenza di questi quattro capitoli, all’interno dei quali il lettore cerca ritorni, richiami, assonanze, ma anche per il fatto che ci siano continui cambi di narratore. E che si passi con fluidità dalla prima alla terza persona singolare e poi alla prima persona plurale, senza che le ragioni di questo cambiamento sembrino esclusivamente un vezzo stilistico. 

Cusk destabilizza ulteriormente il lettore scegliendo di chiamare diversi dei suoi personaggi G, forse per tentare di rispondere a una domanda che emerge nel testo: «Perché era impossibile creare senza identità? Perché bisognava identificare un'opera con un individuo, quando era in egual misura il prodotto della storia e di un'esperienza condivisa?».

G è un artista affermato che, a un certo punto della sua carriera, dipinge quadri capovolti (e si pensa subito a Georg Baselitz). G è una scultrice che realizza figure imbottite, penzolanti, senza genere ed esili ragni neri sovradimensionati (e si pensa subito a Sarah Lucas e Louise Bourgeois). G è una pittrice di fine Ottocento che crea autoritratti nudi in gravidanza, prima di morire di parto trentunenne. G è un artista che ha imparato a disegnare copiando libri presi in prestito dalla biblioteca di Harlem, trascurato in vita e celebrato dopo la morte soltanto in virtù della sua marginalità. G è un’artista dalla giovinezza dissoluta, poi succube del marito e dello stile di vita che il successo garantisce. G è un artista su cui è stata realizzata una retrospettiva, la cui inaugurazione è interrotta da un suicidio nel museo che la ospita. G è un regista di film naturalistici e poetici che cerca di rinunciare all’autorialità e usa uno pseudonimo.

In questa sequenza di nomi che sono solo consonanti si fatica a orientarsi, è vero. Quel che rende affascinante la scrittura di Cusk è, però, proprio questa capacità di essere lapidaria e impietosa nella sua descrizione dell’umanità e, in particolare, del sistema dell’arte contemporanea. Nella storia dedicata a «Il tuffatore», gli ospiti alla cena che segue l’inaugurazione, interrotta pubblicamente per il suicidio che però non ha fatto rinunciare al banchetto privato, commentano negativamente il ristorante, ma si consolano pensando che mangeranno a spese del museo. La direttrice, arrivata in ritardo per le procedure burocratiche, dice: «Avrei solo voluto che scegliesse un altro giorno» e si lamenta per aver chiuso in questo modo la sua carriera, essendo prossima alla pensione. 

I soliloqui, l’autoreferenzialità, la superficialità che Cusk descrive non dipendono dalla sua scrittura, ma dall’universo che rappresenta. L’universo di chiunque, pur avendo mangiato hot dog, abbia frequentato non tanto la Tate o il Whitney, quanto qualunque galleria, fiera o scantinato occupato da uno spazio indipendente. Pare che Cusk metta in atto le intenzioni poetiche di un suo G: «non voleva dirigerli: voleva guardarli accadere».

Marta Cereda, 08 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Il nuovo ciclo del progetto di GAMeC in tre paesi nel bergamasco affida a tre video l’indagine della relazione tra umano e animale

L’ultimo romanzo della scrittrice coreana, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 2024, è ricco di tracce e riferimenti all’arte contemporanea, lasciando nel lettore un dubbio: si tratta di opere reali o solo di fantasia?

Il corteo di Rachel Cusk | Marta Cereda

Il corteo di Rachel Cusk | Marta Cereda