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«Pane di Elena» dalla serie «Pani del desiderio» di Ilaria Turba

© Ilaria Turba

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«Pane di Elena» dalla serie «Pani del desiderio» di Ilaria Turba

© Ilaria Turba

Il destino dei «Pani del desiderio» di Ilaria Turba

Da Marsiglia alla Sardegna, negli ultimi cinque anni l’artista visiva ha celebrato le aspirazioni delle persone attraverso il pane rituale, la fotografia e l’ascolto

Rica Cerbarano

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Incontro per la prima volta Ilaria Turba in un caffè di Milano, a febbraio. La sensazione è quella di aver trovato una persona rara, con cui confrontarsi su alcuni temi sensibili del «fare arte»: le parole che tocchiamo più spesso sono «collaborazione», «coinvolgimento», «interazione». Capisco subito che è una di quelle artiste che sfuggono alle definizioni. Il suo lavoro intreccia sperimentazione visiva, scienze sociali, performance e storia orale, in un rapporto orizzontale e osmotico con la comunità in cui si inserisce. Parte dalla fotografia per inoltrarsi verso strade poco battute, che però chiede alle persone di percorrere insieme, mai da sola. Il suo entusiasmo è contagioso. Mi racconta, soprattutto, di un progetto che sta per concludere, dal titolo «Pani del desiderio», dove il rituale della panificazione diventa un ponte per connettersi alle persone, in momenti di convivialità e condivisione.

Sette mesi dopo, il progetto è concluso e Turba (che il 27 settembre terrà un incontro presso la manifestazione «Contemporanea», ad Alghero) ne racconta genesi e sviluppo a «Il Giornale dell’Arte».

«Castiglione delle Stiviere» dalla serie «Pani del desiderio» di Ilaria Turba. Foto ©️ Camila Schuliaquer

Come è nato il progetto «Pani del desiderio» e come si è evoluto nel corso del tempo?
Nel 2019 sono stata invitata come artista associata da Le Zef, un teatro nazionale di Marsiglia, dove mi hanno chiesto di realizzare un progetto sui quartieri nord della città. Sentivo forte la necessità di riflettere sulla nostra incapacità di fermarci e proiettarci collettivamente verso un futuro condiviso, così ho deciso di lavorare sul tema dei desideri collettivi. Nel contesto di questo progetto, che ho intitolato «Il desiderio di guardare lontano», su cui ho lavorato per cinque anni, sono nate varie azioni, tra cui quella dei «Pani del desiderio». Facendo ricerca, mi sono imbattuta in una magnifica collezione di pani rituali del Mediterraneo conservata nella collezione del Mucem. Da sempre volevo lavorare con il cibo, e il pane in particolare, così ho creato un percorso di atelier accessibili a tutti: anche bambini e persone lontane dal mondo dell'arte contemporanea e del teatro. Il pane rituale si differenzia dai pani normali perché nasce dentro una ritualità, che normalmente avviene in occasione di feste o in momenti particolari dell’anno significativi per la comunità. La ritualità per me era invece inscritta in uno spazio di esperienza artistica e di vita. Durante gli atelier, due persone sconosciute si sedevano una di fronte all'altra e lavoravano insieme. Di fatto, questi laboratori erano per me una chiave di accesso per raccontare il mio progetto, per raccogliere e riflettere sui desideri delle persone. I partecipanti creavano il pane dando la forma del proprio desiderio, seguendo un tempo molto calmo e immersi in una dimensione di grande ascolto e libertà. Alla fine, fotografavo le mani di tutte le persone con il proprio pane, creato dopo aver condiviso le loro storie. Nel corso degli anni ho raccolto a Marsiglia oltre cento pani e altrettanti desideri. 

«Madre Project» dalla serie «Pani del desiderio» di Ilaria Turba. Foto © Ilaria Turba

Negli ultimi due anni i pani hanno viaggiato da Marsiglia all’Italia. Qual è il motivo?
Alla fine del mio lavoro in Francia, il progetto «Il desiderio di guardare lontano», dopo essere stato esposto, è stato acquisito dal Mucem nella sua interezza, dalle interviste, alle fotografie, fino ai miei quaderni di appunti. Però i pani non li volevano perché hanno un costo di mantenimento altissimo essendo materiale deperibile. Così, mi sono ritrovata a fine 2021 con tutti questi pani di cui non sapevo cosa farne. Allora ho deciso di scrivere un progetto ad hoc. Dopo tanti anni all’estero, mi sono detta: li porto con me in Italia, facciamo un tour come se fossero delle rockstar e poi, finito il viaggio, li trasformo in polvere usando il fuoco con cui sono stati cotti. Sono stati tanti gli spazi che hanno accolto i pani, tutti luoghi in trasformazione, spesso con un passato difficile: a Chiaravalle nella periferia di Milano con Madre Project, un progetto di «Terzo Paesaggio» e Davide Longoni, nel paese medioevale di Fontecchio per Performative del MaXXI L'Aquila, al Mad-Murate Art District nelle vecchie carceri di Firenze, a Castiglione delle Stiviere dov’è nata la Croce Rossa, tra Mutty e il Museo Internazionale della Cri, a Ghesc, un paesino in pietra in ricostruzione ai piedi delle Alpi, per Campo Base. Per finire a Villaurbana in Sardegna. Quando ho iniziato il viaggio a Marsiglia non sapevo bene cosa sarebbe successo in mezzo, ma sapevo che avrei voluto concludere il viaggio in quell’isola.

«Villaurbana» dal progetto «Pani del desiderio» di Ilaria Turba. Foto ©️ Camila Schuliaquer

Perché ha deciso di terminare il progetto in Sardegna?
Perché è un luogo che ha una tradizione di pane rituale fortissima, molto viva, e anche perché è una terra estremamente vicina alla natura e connessa a un tempo umano differente. Nell’esperienza dei «Pani del desiderio» il tema del tempo è molto importante. L’idea di una pratica manuale che necessita di un tempo di vita e di un ascolto diverso, che non abbiamo praticamente più, è fondamentale. La Sardegna era il posto perfetto per questo passaggio conclusivo di distruzione della collezione dei pani realizzati a Marsiglia, a cui si sono sommati quelli realizzati lungo tutto il percorso. Sin dall’inizio sapevo che avrei bruciato tutti i pani, sì, perché volevo trasformarli in polvere, in una materia informe come la farina, non in cenere. Avevo bisogno di trovare un luogo che potesse accogliere il mio gesto, capirlo e accompagnarmi. Grazie all’istituzione che ha sostenuto il progetto sul territorio, Fondazione Sardegna con il programma Ars (Arte e Territorio), sono arrivata a Villaurbana, un paese dove c’è una grande tradizione e il pane rituale è presente nella quotidianità delle persone. Tutte le case hanno un forno. Cammini per le vie ed è normale sentire spesso l’odore di pane appena sfornato, un luogo ideale per terminare il mio percorso.

«Villaurbana» dal progetto «Pani del desiderio» di Ilaria Turba. Foto ©️ Camila Schuliaquer

Come si è conclusa questa esperienza?
Ai piedi del Monte Arci abbiamo trasportato i pani, da una località chiamata S’arangiu Aresti fino al cuore del bosco dove abbiamo fatto un fuoco e disposto i pani su dei tavoli. Le persone sceglievano una forma di pane, io raccontavo loro la sua storia, da dove arrivava e chi l’aveva fatta (mi ricordo la storia di tutti i pani!), dopodiché i pani venivano bruciati. Nella maggior parte dei casi mantenevano la forma e usciti dal fuoco venivano poi portati in una sorta di laboratorio alchemico con piani di legno e pestelli di marmo per ridurre i pani carbonizzati in polvere nera. Non si respirava una dimensione funerea o esoterica, anzi, è stata una bellissima giornata di festa e di celebrazione dei pani, della loro storia e della loro presenza. Un momento di cura di oggetti speciali, delle parole, dei desideri delle persone, dei luoghi, dei gesti semplici. E grazie alla generosa e sensibile collettività di Villaurbana, abbiamo ridato una nuova vita ai pani, rendendoli un po’ eterni. Le polveri verranno riportate a Marsiglia, mescolate con l’argilla dei quartieri nord della città, la stessa argilla con cui è stato costruito il forno dove sono stati cotti. L’idea è di farne una forma-scultura finale stabile che entrerà anche lei nella collezione. Stiamo lavorando anche a una mostra al Man-il Museo d'Arte Moderna di Oristano per l’autunno 2025, con un focus sulla tappa sarda di Villaurbana.

In generale, come definirebbe il ruolo della fotografia nel suo lavoro?
L’immagine fotografica ha la capacità di incanalare in modo assolutamente semplice, immediato e veloce idee estremamente complesse e stratificate. Nei miei progetti la fotografia diventa oggetto, relazione, gioco. Mi piace questa dimensione materica che può trasformarsi in altro. Ogni tanto mi definisco artista visiva e fotografa. Ogni tanto, per farla semplice o rassicurare i parenti, solo fotografa. La mia arte è fatta di relazioni, tracce e avvenimenti effimeri, che restano nella memoria. Vorrei trovare un nuovo nome, una nuova definizione, per raccontare il mio lavoro, che possa abbracciare veramente la complessità che attraversa. 

Quando comincia un progetto non si sa mai bene dove ti porterà, quale sarà il risultato…
Esatto, capisco la mia pratica e la forma che prenderà un progetto in itinere. È ovvio che con l'esperienza prevedo delle cose, ma rimangono comunque imprevedibili. Questo è il senso del mio lavoro. Non posso prevederlo perché dipende dalle persone, dalla loro partecipazione e dai luoghi. In un vero progetto partecipativo, sai come inizi e ma non sai come si sviluppa e come finisce.

«MaXXI L’Aquila» dalla serie «Pani del desiderio» di Ilaria Turba. Foto ©️ Camila Schuliaquer

Come riesce a comunicare la sua visione alle istituzioni che la sostengono, a non piegare il suo lavoro alle griglie temporali e progettuali che spesso vengono richieste nel mondo dell’arte? 
Ho sempre obbligato le istituzioni a cambiare il loro modo di funzionare per accogliere l’imprevedibilità. Devi difendere il processo nella sua delicatezza e fragilità. La natura del mio lavoro crea un tempo diverso da quello che viviamo, e io lo proteggo. Il risultato finale quasi non importa, ma come ci si arriva sì, molto. La dimensione di cura è fondamentale, soprattutto quando si lavora con persone che hanno bisogni primari di sopravvivenza. L’arte ha la capacità di aprire la mente, di lasciare dei segni importanti, ma c'è bisogno di tempo. E io sto cercando di essere sempre più radicale in questo.

Rica Cerbarano, 25 settembre 2024 | © Riproduzione riservata

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