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Diletta Dogliani
Leggi i suoi articoliAby Warburg, storico e teorico dell’arte tedesco vissuto a cavallo fra Ottocento e Novecento, aprì la via ad una considerazione della storia dell’arte come studio delle immagini nel loro senso più ampio, inteso come approccio a queste ultime al di là dei limiti delle pratiche artistiche propriamente dette. La sua ricerca si focalizzò sulla comparazione fra immagini provenienti dalla cultura “alta” e “bassa”, simboli religiosi e profani, classici e contemporanei, fino a formare l’Atlante Mnenosyne, un vero e proprio dispositivo fotografico o macchina iconica, capace di connettere immagini provenienti dai luoghi, i tempi e le culture più disparate. Adelphi ha scelto di ripubblicare il saggio Il rituale del serpente. Una relazione di viaggio, edito dalla stessa casa editrice per la prima volta nel 1998 e originariamente consegnato sotto forma di manoscritto da Warburg al dottor Fritz Salx nel 1923. La ricerca è stata a lungo adombrata dalla folla di pubblicazioni dedicate all’Atlante, le quali in parte hanno ispirato la foga archivistica della produzione artistica contemporanea, basti pensare all’ Atlas di Gerhard Richter (1962- 2013) o al monumentale progetto Kulturgeschichte (1980-1983) realizzato da Anne Darboven.
Il rituale del serpente invece, che lo stesso Warburg definisce come “orrida convulsione di una rana decapitata”, forse perché scritto ventisette anni prima della pubblicazione, forse perché assume il carattere intimistico di un diario di viaggio redatto mentre visitava la terra dei Pueblo – situata fra il Nuovo Messico e l’Arizona – pone l’attenzione su una sola immagine: il serpente. Nella cultura pagana questo è simbolo di potenza e del legame fra la terra e il cielo, infatti, specificatamente nella cultura Hopi, che pratica il rituale coreutico della “danza del serpente”, l’immagine dell’animale è tutt’ora legata alla pratica del totemismo. Il culto totemico è l’insieme di credenze che considera i totem come simboli culturali e spirituali che rappresentano una connessione tra un gruppo di persone, ad esempio una tribù, e un animale, pianta, oggetto naturale o mitologico considerato sacro. Nel caso dei rituali dei Pueblo, il serpente è visivamente associato alla forma sagittata del fulmine per la sinuosità del suo corpo e per la rapidità nello scagliarsi sulla preda, proprio come il lampo che colpisce la Terra. Basandosi su questa corrispondenza simbolica, l’animale assume il ruolo di protagonista nei rituali propiziatori della pioggia, che, in un territorio arido come quello delle alture messicane, è il bene più prezioso e desiderato. Questo esempio spiega la centralità della visualità nel totemismo, esponendo come il culto collettivo, ancestrale e intimistico, tratti l’immagine come veicolo di un’esigenza pratica, ovvero l’irrigazione dei campi fondamentale per praticare l’agricoltura. Per avvalorare la sua tesi di migrazione, mutamento, ma al contempo permanenza dell’immagine del serpente nel corso delle epoche, Warburg non si limitò allo studio di questa nelle culture primitive, bensì, come nell’Atlante Mnemosyne, utilizzò il metodo comparativistico per confrontare quelle specifiche prodotte dagli Hopi con altre, enfatizzando la contrapposizione tra il pensiero simbolico dei nativi e quello tecnico-scientifico degli Occidentali. L’immagine del serpente permane anche nell’ipertecnologica società occidentale contemporanea, che giustifica la gran parte dei fenomeni naturali con evidenze scientifiche. Guardando al nostro tempo, infatti il serpente continua a presentare una universale carica simbolica declinata secondo il principio del terrore e del perturbante ed è spesso presente in opere d’arte che trattano degli avvenimenti della storia.
Penso all’opera d’arte contemporanea Resurrexit, realizzata da Anselm Kiefer nel 1973. L’artista, che Warburg non conobbe, utilizzò nella sua arte forme totemiche per caricare i materiali di senso simbolico e tentare di comprendere, senza giustificare, gli avvenimenti della storia a lui contemporanea, in particolare il crimine di cui il popolo tedesco si macchiò durante la Seconda Guerra Mondiale. Resurrexit rappresenta una strada forestale desolata, cosparsa di sangue e delimitata da alberi spogli che si protendono verso un cielo nebbioso. L’unica presenza vivente è un serpente che striscia sul sentiero. L’opera, inoltre, è sormontata da un altro pannello, di forma triangolare, che pare non adattarsi allo spazio fisico della tela e che per questo si protende al suo esterno. Qui figura una scala con una porta chiusa, chiara allusione alla chiusura delle porte del Paradiso dopo che gli uomini commisero il più grande crimine della storia. La scala e la porta rimandano in maniera esatta, quasi da sospettare che non possa essere casuale, al regno dei cieli così come appariva nei dipinti Hopi. Warburg infatti ricevette in dono una rappresentazione cosmologica dal sacerdote Cleo in cui figurano il serpente, come animale votivo e propiziatore e la casa-universo di forma triangolare e dotata di scale, che corrisponde al luogo d’incontro tra il mondo naturale e quello umano, dunque fra terra e cielo. La corrispondenza fra le due opere, per quanto sicuramente non pre-determinata, può essere assunta a testimonianza della tesi di Aby Warburg riguardo la potenza delle immagini, che trascendentalmente alle epoche, alle culture e al contesto sociale, sono il mezzo più potente per comprendere la storia del mondo, sempre a “metà strada fra la magia e il logos”.

Cleo Jurino, Raffigurazione cosmologica. Santa Fe, 1986, con appunti di Aby Warburg.

Anselm Kiefer, Resurrexit, 1973, 290 × 180 cm, olio, acrilico e carbone su tela di juta, Collezione Sanders, Amsterdam.
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